“Un giorno di questi”, la Napoli potente e visionaria di Ciriello (Connessioni)

di Maria Teresa D'Agostino, del 21 Aprile 2018

Napoli è molto più grande della mia immaginazione, fin da bambino sapevo che anche da vecchio non sarei mai arrivato a conoscerla tutta, con le sue persone sospese, voce ’e notte. Generazioni di voci di notte, anime in pena che colavano via lungo scale e strade, per riversarsi in mare, per trovare uno sbocco, un orizzonte, aspettando sempre una luce, la magnanimità di un altro: santo o Dio che fosse, tra gli spari di una gioventù sempre più rumorosa col passare del tempo, così diversa dalla mia. Fenesta ca lucive e mo nun luce.

Napoli negli anni Ottanta del secolo scorso. Luogo di eccessi e grandezza, palcoscenico estremo del bene e del male, infinito mutare di tinte sempre accese. Così la racconta Marco Ciriello nel suo Un giorno di questi (Rubbettino), romanzo per frammenti, narrazione libera e sorprendente nello stile e nei contenuti, rievocazione storica, sociale, immaginifica. Ciriello, classe 1975, giornalista e scrittore, quegli anni li ha vissuti da bambino, ma li racconta nei panni adulti di un cronista, chiedendo storie e memorie a chi davvero è stato giornalista di punta nella Napoli di allora, come Francesco Palmieri. Storie vere ma pure l’universo visionario di Ciriello, le fascinazioni di un mondo conosciuto attraverso altri occhi eppure sentito in maniera tanto vivida da ricordarlo e raccontarlo con nostalgia rabbiosa, dolente, ironica.

 «La mia visione e il mio interesse per quel periodo sono nati dall’incontro con grandi giornalisti che hanno vissuto in prima linea quegli anni, come Palmieri e Carmine Spadafora, che fecero pure un’indagine controcorrente sull’omicidio di Giancarlo Siani. Era la Napoli di De Filippo, Troisi, Pino Daniele, la Napoli di Cutolo e Giuliano. Di Lucio Amelio, Andy Warhol e Joseph Beuys. Napoli potente, artistica e criminale. L’ultima Napoli caratterizzata da una forte identità, non uniformata all’universo globalizzato delle città tutte uguali a sé stesse» ci dice. «Quella Napoli comincia il suo processo di decadenza a partire già dal 1984, con la morte di Edoardo De Filippo, e lo conclude con la partenza di Maradona, re di Napoli, nel ’91, e poco dopo con la fine del contrabbando. Questi sono i tre momenti topici per la città».

Nel libro ci sono tutti e tutto: el pibe de oro e Pupetta Maresca, la camorra e il contrabbando, gli artisti e i criminali, i giornalisti “abusivi” e i grandi giornali, la musica e la violenza. Napoli teatrale, carnefice e vittima, sempre e comunque “grande”, secondo Ciriello. «Oggi è di sicuro una città più vivibile, meno violenta, ma pure più uguale a mille altri posti e sempre meno uguale alla grande Napoli che nel Settecento rivaleggiava con Parigi. Ha un’identità sfumata, meno potente. Allora anche il crimine aveva una sua caratterizzazione interessante… Cutolo e Giuliano scrivevano, per esempio; il male ambiva a uno scenario sfarzoso, da mafia americana, come i Bonanno che avevano quasi un istinto allo spettacolo. Non ne faccio una valutazione di merito, ovviamente, ma solo uno studio antropologico, tecnico e asettico, che mi porta a definire contorni e contenuti di quella Napoli scomparsa dalla scena e dalla narrazione, ormai lontanissima da quella capacità di raccontarsi. La narrazione politicamente corretta della Napoli di oggi è una forzatura, le cose sono molto più complesse. Siamo passati dal reporter Jo Marrazzo, giornalista rude con l’istinto per la notizia, a cronisti “vuoti”, privi del coraggio di osare, di sfidare il potere e il crimine. Marrazzo intervistava un giovanissimo Pino Daniele, Masaniello della canzone napoletana, camminando a piedi lungo la tangenziale, con le macchine che sfrecciavano di lato. Oggi questa metropoli del sud ha perso il suo potere più grande: la fantasia».

Ciriello racconta la decadenza; peggio, lo scivolamento nell’anonimato. E ritrae una Napoli felliniana, a volte da “sceneggiata”, capace di essere semplicemente “unica”, in estrema sospensione tra la conquista del mondo e il precipitare nell’oblio. “Un giorno di questi…” è monito e minaccia del padre, ma pure la quintessenza di una città che “promette sempre nel vago”. «La Napoli di oggi non è interessante, se non in qualche angolo artistico come la scena rap e i writers, ancora capaci di stupire e di stupirsi, ma in maniera naturale, inconsapevole, come era negli anni di quella Napoli autentica, incontaminata. Quella di Fuorigrotta e Campi Flegrei, cantata da Edoardo Bennato, quella di Nicola Pugliese in Malacqua, il vero racconto di Napoli. O del Pino Daniele di Notte che se ne va. Poi anche lui si dissocia da questa Napoli enorme, incontrollabile, madre e matrigna. Oggi Napoli ha ceduto agli stereotipi che la vogliono popolata da indolenti e traffichini, da nullafacenti e delinquenti, ha distrutto l’immaginario potente che arrivava appunto fino agli anni Ottanta e tutto il lavoro di decostruzione e ricostruzione sui sentimenti e la vita dei napoletani del grande Massimo Troisi».

Non sono mai stato prudente, esserlo significava avere misura e io non ne ho mai avuta. Significava portarsi dietro la paura e io quella l’ho persa quasi subito. Se fossimo tutti stati prudenti a cominciare da Eva ora chi ci sarebbe qua a Napoli? E sta confidenza co’ cielo chi se la pigliava? No, né io, né la città siamo mai stati prudenti, non potevamo, non ci apparteneva. La prudenza è proiezione di uno stato mentale che dice statte accorto qua, statte accorto llà, arrenditi alla gioia di godere.

Altre Rassegne