“Apocalittici e Integrati, 50 anni dopo dove va la televisione” di Gianpiero Gamaleri (IlMessaggero.it)

di Carmine Castoro, del 13 Luglio 2015

Da IlMessaggero.it del 11 luglio

A rileggere alcune pagine di “Apocalittici e Integrati”, l’opera di Umberto Eco del 1964, si prova una sensazione raggelante.
Sembrano scritte dopo una puntata di “Uomini e Donne”, dopo l’ennesimo tg che non ci informa realmente su nulla, dopo l’ennesimo reality che, nell’ipnosi e nel grande inganno della “presa diretta”, è solo finalizzato a indurre bisogni, innescare invidie, catturare desideri, infondere paure e spinte all’acquisto. Soprattutto quando il grande semiologo dice: “La Tv ci è apparsa come l’energia nucleare; e come l’energia nucleare può essere finalizzata solo sulla base di chiare decisioni culturali e morali”.
La ripresa di questo testo pietra miliare – con una sorta di festeggiamento dell’anniversario del suo mezzo secolo – è un pregio da attribuire ai Quaderni di CRTV, Confindustria Radio Televisioni, collana editoriale che vuole riportare fortemente alla ribalta il rapporto fra media e società con l’apporto di riflessioni e studi di osservatori autorevoli.
Nell’edizione Rubbettino da poco uscita, curata dall’insigne professore Gianpiero Gamaleri, ex Cda Rai, dal titolo “Apocalittici e Integrati, 50 anni dopo dove va la televisione”, ritroviamo una ripresa estremamente formativa di quei temi che sembrano, davvero, pubblicati qualche giorno fa. In una introduzione disseminata di cruciali e inaggirabili interrogativi sul destino della comunicazione oggi, Gamaleri ricorda alcuni brani di Eco che danno la cruda impressione di come la nostra coscienza civica e di spettatori si sia come fissata, irrigidita, congelata su rapporti fra soggetto e potere mediatico senza alcun ragguardevole passo in avanti.
La situazione, insomma, è allarmante, esattamente come negli anni presessantottini in cui il capitalismo delle merci sovrabbondanti e della colonizzazione delle menti già faceva subodorare le seduzioni di un nuovo eco-sistema tradotto nei bavagli dei linguaggi di massa.
Nell’interessante opuscolo curato da Gamaleri, Luca De Biase, sulla scorta delle tesi di Ferraris, ricorda come l’infosfera non sia solo un medium, ma un software esistenziale che regola i comportamenti e detta limiti, soglie, abitudini senza più l’orrore della repressione; mentre Aldo Grasso parla degli strumenti della comunicazione e dell’intrattenimento come di “veri e propri ambienti in cui prende forma la nostra esperienza di vita quotidiana”. Ancor più stentoreo Mario Morcellini: il mainstream si autoproduce e, pure alla luce di un numero di scelte crescenti e autogestibili (si pensi alle tante formule “on demand” della tv satellitare e non solo) “non verifica ciò che al pubblico piace guardare, ma effettivamente ciò che il pubblico seleziona tra ciò che è possibile guardare”.
L’idea della televisione come di una sorta di nuovo habitat, da un lato, e di scoria da stoccare, di tossinfezione invisibile, di radiazione ad ampio spettro, dall’altro, ricorda anche gli allarmi lanciati, sempre negli anni ’60, da Marshall McLuhan e colloca a tutt’oggi, la “malattia” dell’immagine in un cotè positivo, produttivo, micellare, che non porta solo a una debilitazione, ma a un collasso, a una prostrazione, a un esaurimento di possibilità, a un gioco di insignificanza, che è contemporaneamente croce e delizia, degenza e demenza. In queste nuove “contaminazioni” ne va della totalità tutta del nostro organismo personale e di quello sociale. Inquinamento radioattivo. Contaminazioni nucleari. Un Reale al plutonio, che ci attraversa fin dentro le nostre fibre, e che ci costringe in maniera silente ad ospitare un Congegno, una massa emozionale che ha un suo perno invisibile e che sovrappone all’unisono l’efficienza e il controllo, la libertà e l’auto-sfruttamento, il “meaning” dei significati socialmente ammessi e il “mining” dell’estrazione e della messa-a-profitto di parti intere del nostro sé o di tutto il suo spazio-tempo. I contenuti ne risultano micidiali perché la Forma lo è ancor di più, in quanto immemore dell’Umano.
Eco parlava nel testo del ’64 di “oscuri istinti conformistici”, di una “direzione occulta dell’opinione” che suggerisce al pubblico “ciò che deve volere o deve credere di volere”. Come dargli tolto nel 2015, nonostante la rivoluzione del Web e la possibilità di personalizzare i palinsesti dallo schermo al cellulare? L’immagine diventa allora, oggi come ieri, posa, nella triplice accezione di gestualità recitata; feccia limacciosa che appesantisce o contagia i processi di democratizzazione; avvio di un cantiere, installazione di una rete, di un cavo, di un pavimento dove si ergerà il building delle identità e dei comportamenti.
E’ Baudrillard nel famoso libri “Simulacri e Simulazione” a dirci quali sarebbero stati gli stadi successivi dello sviluppo dell’immagine. Saremmo passati dal “sacramento”, apparenza buona “riflesso di una realtà profonda”, al “maleficio” apparenza cattiva che “maschera e snatura una realtà profonda”, al “sortilegio” che gioca a essere un’apparenza e “maschera l’assenza di una realtà profonda”, fino alla “simulazione”, “priva di rapporto con qualsivoglia realtà”.
I primi due livelli apparterrebbero storicamente a quelli della verità e del segreto, dunque anche all’ideologia, i secondi a una sorta di tele-cibernetica della non-realtà, era di cui siamo a pieno titolo cittadini da alcuni decenni. Cosa ci dice questa scansione? Che, nella teologia, immagine e sostanza in pratica coincidono, e che l’una è sostegno dell’altra che si pone come reale nell’atto di cieca fede. Che, nel maleficio, si dà per scontata una episteme della vita e dei rapporti presunta universale, invece di parte e oligarchica. Che, nel sortilegio, cominciamo a de-localizzarci verso un mondo di pure “essenze” nate in provetta, nel Meccano della riproduzione sociale. Che, nel simulacro, siamo noi persone “reali” a chiedere diritto di asilo a un “quid” che ha dichiarato secessione completa. Il punto di crash fra i due sistemi che a noi interessa è fra ideologia e sortilegio, là dove non abbiamo singolarità, bensì singulti afoni, pezzi slabbrati, irrelati, presi nella loro semplice irriverenza, fuori dai cardini, perennemente a-sistematici.
Via via che ci avviciniamo al simulacro e a come questo si stacca dalla realtà, quasi fosse una logica divina, una Natura suprema, super partes, la forma delle immagini diventa sempre più autoregolata, introflessa nei proprio schemi, nei propri algoritmi. Allude a questo Monica Maggioni nel suo “Terrore mediatico” (Laterza) quando sottolinea come anche l’ISIS, autore della strage parigina di Charlie Hebdo, avesse fatto ricorso nel marzo 2013, sulla rivista “Inspire” ad una tecnica molto cow-boy, umiliante e incendiaria al tempo stesso, tipicamente occidentale, pubblicando i nome degli 11 (9 uomini e 2 donne) “wanted dead or alive” per “crimini contro l’Islam”. Pareggiando il conto con il famoso mazzo di carte su cui campeggiavano le facce dei 52 luogotenenti e sodali di Saddam, presi poi in parte uno a uno, quando gli Stati Uniti decisero di invadere l’Iraq. Come a dire: le campagne di addomesticamento mediatico e di propaganda ideologica rispondono a un così-si-deve, tecnocratico e iconografico, che livella anche le appartenenze, i credi più ostili, le bandiere che, apparentemente, sarebbero le più antitetiche e inavvicinabili, come quelle del Califfo e della Casa Bianca.
Ma è Luca Sofri a farci capire ancor meglio queste sofisticate fenomenologie che prendono vita da sole come dei Golem sacrificando il senso dei fatti e la ragionevolezza dei loro stessi artefici, in un testo implacabile, asciutto, di scuola, e al vetriolo, “Notizie che non lo erano” (Rizzoli), dove ricostruisce tutte le bufale giornalistiche, le retoriche acchiappa-lettori, i flussi cadenzati di news, le citazioni di “fonti” farlocche, i cataloghi di storytelling che insozzano le pieghe più affidabili, o presunte tali, delle informazioni che dovrebbero rimandarci i contorni veri di come va il mondo e di cosa succede in esso, il giochino delle smentite, il sensazionalismo dei titoloni. “Vogliamo leggere storie strane più che storie vere”, ammette laconico Sofri. E cosa c’è dietro tutto questo? Visualizzazioni di spot, rampantismi e carrierismi, finti scoop e grosse vendite, presenzialismo nei programmi di opinione, movimentazioni di sentiments, creazione di trend di massa, entertainment travestito da sana cultura e sana lettura. Insomma, un nulla spalmato che rattrappisce le nostre sensibilità, disancora alla bisogna le nostre certezze, le sostituisce come in un catino con nuovi prodotti, nuove sollecitazioni, nuove reti da pesca mentale. Un sottobosco velenosissimo che fa dire a Craig Silverman, nell’introduzione a Sofri, che tutto trama per creare “pensiero a breve termine” fatto di speciose discussioni sui social e processi di accaparramento dei nostri tempi di attenzione che non educano e non informano. Un’azione di “pacificazione e controllo” diceva Eco. Ma eravamo solo nel 1964.

Di Carmine Castoro

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