LE RECENSIONI di MARIA FRANCO. “Il romanzo del casale”, Giovanni Sapia (Rubbettino) (zoomsud.it)

di Maria Franco, del 22 Marzo 2020

«Possibile che oggi in Italia si scriva un libro del genere e che questo libro non diventi un caso letterario? (…) Siamo sicuri che anche adesso non ci sia nel nostro paese un Tomasi di Lampedusa in attesa del giusto riconoscimento? (…) Ma è possibile, ripetiamo, che un libro come questo debba passare inosservato?» Domande che, nel settembre 2017, si poneva, su Avvenire, Alessandro Zaccuri, scrittore e autorevole critico letterario, in un articolo significativamente intitolato E se “Il romanzo del casale” fosse il nuovo “Gattopardo”?

Pubblicato nel 2009 da Pironti, ma passato pressoché inosservato, Il romanzo del casale è ora ripubblicato da Rubbettino: e chi lo leggerà non potrà non porsi gli stessi interrogativi di Zaccuri e augurarsi che il libro abbia, finalmente, tutta l’attenzione che merita.

L’autore, Giovanni Sapio, è nato a Rossano nel 1922 e vi è morto nel 2018. Saggista, filologo, critico letterario, promotore culturale, fondatore e direttore dell’Università Popolare di Rossano, ha scritto un unico romanzo: un classico di rara modernità.

Classico nello sguardo, nella lingua, nello stile. Moderno nella stessa struttura: venti racconti, che si compongono, in qualche caso con gli stessi personaggi, nell’unità di un romanzo. Quella apparsa come una novità proveniente, nell’ultimo decennio, dalla narrativa angloamericana e che, qui, raggiunge livelli altissimi.

Il romanzo del casale trova il suo centro nella mai nominata Rossano: «Il casale giaceva a mezzo della costa che dalla piana ionica s’arrampica, tra molli ondulamenti di oliveti e vigne e anfratti selvaggi, fino ad incontrare i contrafforti selvosi della Sila greca. (…) Tra i tanti che da lontani secoli avevano costellato quella tormentata plaga calabrese (…) aveva resistito al tempo, allargandosi a mano a mano a dignità di piccolo borgo, che tutti intorno riconoscevano col titolo, senz’altro, della sua originaria natura: il casale.» Con la casa padronale dei nobili Rossi, la chiesa, le case, i lavori nei campi e nelle botteghe, i riti, le feste, soprattutto quella della Madonna, a settembre, la scuola, sebbene poco frequentata. «Il casale era l’anima delle stagioni: raccoglieva da ogni angolo del cielo le ventate e le brezze, le voci, gli echi, i silenzi; respirava in primavera (…) quelli che salivano dagli aranceti lontani e d’estate quelli del fieno, che arrivavano uniti alla serenata dei grilli; col sole che nel giorno l’arroventava, giaceva immoto e sonnolento nello stridere delle cicale. Una malinconia greve calava sulle case e sulla strada nelle giornate piovose d’inverno (…) La neve (…) gli conferiva, insieme alle vigne, la veste e l’anima del presepe, di quelli ingenui e casalinghi.»

Un mondo variegato abita il casale. Dal signorotto locale, don Filiberto, galante e amabile con i suoi pari, violatore di servette e «negato al matrimonio», al parroco «don Ferdinando, il prete della giustizia e della carità», che «non godeva egual fama nel rapporto con le donne». Da Mastro Giuseppe; il calzolaio che deve trovare i soldi per far continuare a studiare in collegio il figlio, ma i soldi li ottiene la moglie, sottomettendosi ad una straziante umiliazione, al sarto, mastro Battista, alle prese con un vestito da sposo cui è costretto ad applicare finimenti a ben altro destinati. Dalla ragazza di prorompente bellezza che da lorda e puttana diventa, donna Maria e, infine, donna di virtù, a Carminuzzu, che, tornato in paese dopo lunghi anni di emigrazione, rincontra la sua prima fidanzata: «Egli sentì, nel velo di broncio melanconico, che essa gli segnava una seconda volta la strada, come quando gli aveva detto: “Perché non ci fidanziamo?” Ora pareva dirgli: “Noi siamo questi figli che abbiamo. Il resto è dietro di noi, oltre lo steccato.” E guadagnò lentamente l’asfalto verso il casale, la madre malata, Lucia, i suoi vent’anni, per incontrare altre strade, che congiungono e dividono le storie e i cuori degli uomini».

Persone prima che personaggi. Ritratti, indimenticabili, di vinti. E ritratti, altrettanto indimenticabili, di piccoli artigiani o di professionisti, grandi nella loro dignità e di un prete, tratteggiato nella sua complessa umanità. E di donne, sensuali, pudiche, lavoratrici, capaci di grandi sacrifici e, talvolta, anche di mutare il loro destino. Racconto della povertà contadina e dell’emigrazione; di un sistema economico bloccato prima nella rendita e senza sostanziale sviluppo anche nell’emergere di un relativo benessere. Con l’ombra crescente del potere malavitoso e degli intrecci di corruzione intorno alla politica.

Un approccio che fortemente risente – si può dire, in una recensione, “ringraziando Dio”? – della lezione di Manzoni e di Verga, rielaborata da un narratore che possiede, oltre a doti altissime di scrittura, una conoscenza profonda dell’animo umano e della realtà storico-sociale della Calabria del Novecento. Un narratore di forte tempra morale, con un’attenzione particolare ma non esaustiva agli ultimi. Che domina la materia narrativa riuscendo, in contemporanea, ad essere lo scrittore onnisciente e quello che scompare dietro vicissitudini e pensieri dei suoi protagonisti.

Con una lingua ricca senza essere forbita, semplice senza sentore di banalità; fluida senza semplificazioni, mobile a cogliere, con pudore, con un passo indietro di straordinaria forza comunicativa, gli intimi sommovimenti delle donne e degli uomini del casale.

Un libro che di regionale ha solo il luogo in cui avviene la vicenda. Il casale di Sapio è il mondo che la letteratura, quand’è tale, riesce a ricostruire anche nel più nascosto dei paesi, rimandando, pur nel concreto svolgersi degli anni, all’atemporalità del dolore, della gioia, della fatica e del senso della vita.

Molto interessante la prefazione di Marco Beck

Giovanni Sapia, Il romanzo del casale, Rubbettino, euro 15

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