Chiacchierando con… Giuseppe Aloe (giudittalegge.it)

del 30 Settembre 2020

Il luogo ideale è seduti in una veranda verso le undici di mattina, nel mese di maggio, quando l’aria ha ancora un sentore di fresco e mentre tu fai le domande io posso fumare liberamente. Scegli tu il luogo geografico.

E invece il luogo geografico in cui si possa svolgere la chiacchierata con Giuseppe Aloe, lo lasciamo alla scelta e alla suggestione di quanti vorranno seguirci in questo post.

Lo scrittore torna in libreria per Rubbettino con Lettere alla moglie di Hagenbach, un romanzo che sceglie di accompagnare il protagonista e voce narrante nel lento quanto inevitabile declino nella demenza. Uno scivolamento lento, a tratti consapevole, che si basa sul fragile equilibrio e sulle intermittenze delle capacità cognitive e di discernimento di un noto e famoso criminologo, Flesherman.

Una volta ero Flesherman. Per la verità lo sono ancora. Ma una parte di me sta franando in me stesso.

è l’incipit del nuovo romanzo di Giuseppe Aloe, dalla copertina pumblea che ben si attaglia al tema della lenta, ma inesorabile caduta, indolente e penosa come è definita qualche riga più sotto, nella demenza senile del protagonista, destinata a scivolare ineluttabilmente in Alzheimer.

Per sfuggire ai tentacoli della malattia e non caderne vittima precocemente, accetta l’invito del primario del reparto di medicina legale dell’ospedale Charitè di Berlino, suo vecchio amico, per confrontarsi con lui, noto criminologo, su un ritrovamento eccezionale: il cadavere di Rosa Luxemburg.

I segni della malattia sono evidenti anche se ancora sotto controllo: Flesherman si perde talvolta nei meandri della sua mente che prendono il posto o si sovrappongono alla realtà.

Nel romanzo tu non scegli di raccontare semplicemente la demenza senile, ma accompagni il protagonista invitando il lettore a seguirlo lungo il crinale della stessa, in quel momento passeggero e labile in cui si ha ancora piena, anche se alterna, consapevolezza di sé insieme con quella del decadimento mentale e cognitivo, a cui si è destinati.

Qual è la condizione di Flesherman? Che tipo di protagonista rappresenta?

RISPOSTA: Flesherman potrebbe rappresentare il luogo dei nostri incubi da occidentali funzionali. Perdere la memoria, la consapevolezza di sé, smarrirsi, non riuscire a controllare il linguaggio o i pensieri è la grande paura di un io iperazionale che tende al controllo continuo e asfissiante. Dico potrebbe perché chiaramente ognuno ci legge la propria storia, quindi la visione  della propria esperienza. Lui è in qualche modo il tramonto dell’uomo occidentale. La sua storia e il suo declino sono quelli dell’uomo occidentale. Anche la sua voglia di fronteggiare la demenza è un sintomo di questa occidentalità che non demorde. Flesherman è un destino. È l’apparire del destino sotto forma di personaggio.

Nei miei romanzi il protagonista non è solo la voce narrante. Potremmo dire che il vero personaggio del libro è Hagenbach, o la moglie di Hagenbach, o le lettere, o i pensieri di Flesherman, o Rosa Luxemburg. La voce è una, ma la visione è molteplice.

 

Molteplicità che tu hai saputo rendere con raffinata perizia e che costringe il lettore ad attraversare il romanzo come un labirinto di senso e suggestioni.

Hagenbach, lo scrittore di successo che scompare all’improvviso per sfuggire al suo destino di “vedovo”, potrebbe essere considerato un alter ego di Flesherman per il suo modo indefesso di non cedere alla malattia della moglie, che è in uno stadio più avanzato e drammatico di quello di Flesherman: allettata e ormai persa in sé stessa in una stanza di ospedale. O al contrario Hagenbach è l’opposto di Flesherman?

La sua scomparsa volontaria ricalca per antitesi la “scomparsa” a cui Flesherman sarà costretto dalla demenza?

Nell’estremo e poetico tentativo di allontanare lo spettro della malattia, Hagenbach scrive delle lettere alla moglie, come se lei potesse leggerle. Lettere di minuta quotidianità che colpiscono il lettore attraverso Flesherman che le legge con una particolare introiezione e partecipazione. 

Che cosa legge Flesherman nelle parole che Hagenbach disperatamente rivolge alla moglie? Quali pezzi di sé e del suo destino ritrova nella “Lettere alla moglie di Hagenbach”? E quale tempo della sua esistenza: il presente, il passato o il futuro?

RISPOSTA: Queste considerazioni meritano risposte molteplici. Hagenbach e quindi la sua scomparsa da un certo punto di vista sono la rappresentazione della mia scomparsa da me. Io ho iniziato a scrivere poesie dall’età di cinque anni e mezzo. Ho continuato fino ai dieci anni. Sapevo che questa era la mia aretè, come dicono i greci, la mia virtù. Ma il primo libro l’ho pubblicato a 45 anni. Per 40 anni mi sono eclissato. Sono stato in qualche luogo che non conosco. Una specie di smemoratezza di tutto. Da una parte questa dall’altra in effetti la scomparsa di Hagenbach allude alla scomparsa della memoria e della consapevolezza di Flesherman.

Hagebach scrive alla moglie nell’estremo tentativo di svegliarla dalla sua malattia. E continua a scrivere anche quando il medico gli scrive che Dora non potrà leggere le lettere. Lui scrive ugualmente. Scrive a nessuno. Che, per quanto mi riguarda, è l’unico modo di scrivere. Scrivere a nessuno, scrivere e lasciare che chiunque abbia il tuo scritto non lo legga, non possa o voglia leggerlo, è il vero scopo della letteratura. Lo scrittore deve scrivere non deve interessarsi di altro. Questo è il suo lavoro. Il resto è congiuntura.

Flesherman legge di sé. Pensa che le lettere siano destinate a lui. Diventa per qualche istante Dora. Lui è la moglie di Hagenbach. Lui è già nella fase del niente. Essendo Dora per un breve tempo non ha idea del tempo. Il tempo è una percezione per chi è sveglio, per gli altri è una specie di silenziatore, qualcosa che non esiste. Neanche come forma di dimensione. Lui in quel frangente non ha tempo.

 

Oltre ai vaneggiamenti di cui Flesherman è vittima, un peso preponderante hanno i ricordi che tornano nitidi e precisi:

Pensavo di non averlo tenuto quel ricordo invece me lo ritrovavo inaspettatamente chiaro, preciso in tutti i suoi dettagli. Come un avvenimento accaduto ieri. Fresco e palpabile. era riuscito a conservarsi con cura punto forse era sceso così in basso proprio per mantenersi intatto.

Un’amante di quarant’anni prima, il figlio undicenne, la morte del padre.
È questo il tempo della demenza? Quello dei ricordi? Che peso hanno nella vita di Flesherman e quale valore assumono in questa fase finale di consapevolezza cognitiva?

RISPOSTA: Il tempo della demenza non è il tempo nostro. Vaga fra un passato remoto, un futuribile delirante, una constatazione su un avvenimento fresco, un’indicazione inattuale. Dobbiamo iniziare a comprendere che il tempo è un argomento soggettivo. Un’ipotesi, una rappresentazione. Per Flesherman ha questi andamenti che potremmo ritenere anomali, ma che per lui sono lineari. E se uno riesce ad entrare in connessione con lui, può notare come anche il suo tempo, che sembra così normale, ha invece delle sacche di resistenza, delle divagazioni, delle fughe in avanti, dei risucchi improvvisi. Questo è il tempo di tutti. Nessuno escluso. Flesherman è l’indicatore della forma del tempo

E mentre Flesherman si dibatte nella necessità di accettare il verdetto del medico, nello scrutare atteggiamenti e reazioni della moglie, gli arriva una proposta che ha dell’incredibile: il ritrovamento del corpo di Rosa Luxemburg, occultato per ragioni politiche e scambiato con quello di una sconosciuta per nascondere le torture di cui avrebbe portato testimonianza e anche le ragioni stesse della morte.
C’è un legame tra la demenza di Flesherman, che si incammina verso il buio, e la vicenda della morte di Luxemburg e dell’occultamento del suo cadavere?
O invece il nesso è nell’indifferenza con cui Flesherman vive il clamoroso caso, che suona come un commiato definitivo al grande e famoso criminologo che è stato?

RISPOSTA: Il ritrovamento del cadavere presunto di Rosa Luxemburg è, per quanto mi riguarda, l’evidenza della storia come beffa. È inutile metaforizzare, edulcorare, dare un senso storico alle vicende umane, chi lo fa propone una propria versione, ma non è la versione definitiva. La versione definitiva è che la storia è una beffa, dobbiamo iniziare a rendercene conto. Flesherman la tratta con interesse professionale, e quindi con il dovuto distacco, ma Rosa gli rimane fra i pensieri. In quell’inizio di capitolo che fa Rosa rosae rosae rosam rosae rosae, Flesherman esplicita quanto della storia della grande donna gli sia rimasto. Poi viene distratto da questa storia dalla sparizione di Hagenbach e dalla malattia della moglie Dora. Rosa e Dora hanno entrambi problemi al femore. A un certo punto Flesherman dice: in femore veritas. E questo ci fa capire come nei suoi pensieri le due donne e le loro vicende s’intreccino.

Flesherman si reca a casa di Hagenbach alla ricerca di una pista per poterlo rintracciare.  Tra le sue carte scova una biografia inserita in una busta accanto a delle foto. La traccia che il criminologo scoverà per mettersi sulle tracce di Hagenbach la lasciamo ai lettori del romanzo. Invece allo scrittore Giuseppe Aloe chiedo quanto della biografia di Hagenbach gli appartenga in posture di vita e poetica narrativa: la vita appartata, la reticenza a pubblicare i testi, la difficoltà a cedere alle richieste dell’editore, lo straniamento sistematico della sua prosa.

Hai ceduto parti di te ad Hagenbach? Avevi in mente un altro autore determinato quando scrivevi, in corsivo nel testo, la biografia di Hagenbach? O invece è il ritratto del tuo scrittore ideale?

RISPOSTA: Naturalmente una parte di me è emigrata in Hagenbach. Specialmente nello straniamento della prosa. Anche la vita appartata in qualche modo mi appartiene, l’idea estetica di cogliere le incongruità e di metterle in evidenza con una prosa quasi incerta che lavora su piani quasi sempre dissonanti. Sono convinto che per quanto mi riguarda, la vita di Hagenbach, almeno secondo la mia visione, dovrebbe essere la vita di qualsiasi scrittore. Uno laterale, che non ama mettersi in mostra, che non vorrebbe separarsi mai dai suoi lavori, che dà più importanza alle cose della vita che al suo ingegno. Ma conosco la vanità, e so per certo che è potente e sconsiderata. E molto spesso noi seguiamo questa strada falsamente inebriante e lasciamo da parte il lavoro del cuore.

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