Francesco Saverio Nitti (MicroMega)

di Pierfranco Pellizzetti, del 28 Gennaio 2014

da MicroMega del 28 gennaio

Una vita spesa in lotte generose per la redenzione del Mezzogiorno e la modernizzazione dell’Italia. Con un mix tra intervento statale e logica imprenditoriale che anticipa il New Deal roosveltiano. Un saggio di Giovanni Vetritto su Francesco Saverio Nitti, liberaldemocratico radicale e battagliero, ci aiuta a recuperare il ricordo di una figura culturale e politica ingiustamente dimenticata ma ancora attuale.

«Si nasce con un destino, e il mio non fu
lieto; fui sempre condannato a lottare,
mai ho avuto il riposo e la pace. E perciò
che qualcosa della mia aspra natura
rimane in me»[1].
Francesco Saverio Nitti

«Il pensiero più maturo in questo momento
storico fu quello di Nitti, che tuttavia mancò
di tatto e di elasticità diplomatica per far
prevalere nel momento opportuno le formule
chiarificatrici… Nitti è liberale in quanto non
vede soluzioni possibili fuori di una politica di
emigrazione e di pace. La sua democrazia di
compromesso, il suo collaborazionismo avevano
il merito di realizzare le premesse unitarie non
ancora compiute»[2].
Piero Gobett

Giovanni Vetritto è un alto dirigente della Pubblica Amministrazione, nato in una famiglia di Commis d’État; oltre che un gentiluomo meridionale. Proprio per la particolare biografia, il suo è un profilo di liberale consapevole del ruolo di regia e regolazione cui è chiamato lo Stato nella complessità (post)moderna; dunque impermeabile alle fisime ideologiche tendenti al fondamentalistico della vague NeoLib che ha imperversato nei lunghi decenni thatcheriani/reaganiani (ma anche dell’opportunismo terzaviario della Sinistra), ora finita nella risacca. Si potrebbe dire “un liberale critico e di sinistra”; intimamente simpatizzante per il gentleman John Maynard Keynes; per nulla sedotto dagli ideologismi mercatistici del parvenu Hayek.
Con Vetritto ho scritto anni fa un libro a quattro mani sul deficit di capacità organizzative e gestionali che affligge l’Italia, quale chiave di lettura di croniche inadeguatezze [3]. Nella divisione dei compiti che avevamo pattuito, sulla base delle reciproche competenze, a me spettava affrontare il côté privatistico, a lui quello pubblico. Ci scambiavamo così i rispettivi testi, sicché ricordo di avere notato già da allora una particolare attenzione del mio coéquipier per un personaggio che all’epoca mi diceva poco e niente: Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 – Roma 1953). Quello che avevo sempre considerato uno dei tanti busti al Pincio dell’Italia pre-fascista, emergeva dalle bozze come una sorta di eroe: “l’eroe di Giovanni”, con un qualche (forse inconsapevole) tratto di identificazione.
Tra le tante prove citate a conferma della sua eccezionalità nel panorama del tempo, spicca la ferma opposizione alla regalia giolittiana – sotto forma di statalizzazione delle ferrovie – ai capitalisti privati ansiosi di liquidizzare l’investimento fatto nel settore; mentre, da «liberale lungimirante, polemicamente avvertiva che la nazionalizzazione necessaria era ormai quella dell’energia elettrica».[4]
Ora Vetritto dedica al suo eroe un compendioso profilo; scritto per conto – appunto – della Fondazione Nitti di Melfi, della quale è segretario scientifico. Un’occasione per recuperare il ricordo di una vicenda culturale e politica ingiustamente dimenticata; una vita spesa in lotte generose per la redenzione del Mezzogiorno e la modernizzazione dell’Italia, per la riforma della macchina amministrativa statuale e – al tempo stesso – per il radicamento di una vocazione industriale inceppata da vincoli strutturali, in primo luogo il deficit energetico. In una sintesi culturale a dir poco sorprendente tra impostazioni antagonistiche, che – ancora nelle polemiche degli scorsi anni (non ancora funestati dai crolli bancari e dal discredito della finanza di rapina) – si sarebbero chiamate statalistica e liberistica.
Difatti, in anticipo di almeno due decenni rispetto al New Deal roosveltiano e alle sintesi keynesiane, il Nostro ipotizza un mix tra intervento statale e logica imprenditoriale quale volano per attivare sviluppo nelle zone e nei contesti affetti da depressione economica e sociale. Tesi messe alla prova già nel 1900 con l’istituzione dell’Ente Volturno e poi – dodici anni dopo – con la creazione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA): l’idea di organismi amministrativi autonomi ed economicamente autosufficienti i quali – sulla scia del Monopolio Tabacchi (Ente a cui Vetritto ha già rivolto le sue attenzioni di studioso nel 2005) – si autofinanziavano sul mercato e offrivano servizi sociali senza gravare la popolazione di ulteriori balzelli fiscali.
Per fare questo occorreva allevare una generazione di nuovi funzionari pubblici di taglio eminentemente manageriale: nulla a che fare col vieto e patetico modello del Monsü Travet, sottopagato e declassato ma anche deresponsabilizzato, che costituiva il paradigma dominante nella piemontesizzazione post-Unitaria della macchina amministrativa. L’idea innovativa è quella di creare task-force in grado di assumere iniziative rapide e puntuali, senza i condizionamenti di una torpida ed elefantiaca macchina burocratica, interessata soltanto all’immortale filosofia del quieta non movere. Al contrario, seppure non esplicitato, fa capolino un principio che diventerà linea guida del re-inventing government solo alla fine del XX secolo: la priorità assegnata al problem solving (al raggiungimento dei risultati) rispetto alla cultura degli adempimenti (l’immobilistica prevalenza delle regole formalistiche, nella totale indifferenza al raggiungimento o meno dei risultati attesi).
Sicché il Nitti-ministro seleziona personaggi di taglio totalmente diverso, valorizzandoli negli organigrammi pubblici; e che – per una coincidenza del destino – diventeranno gli “ambasciatori del nittismo” proprio nel nascente regime fascista, contribuendo a inserire l’Italia, seppure all’interno di un contesto totalitario, in quella rivoluzionaria adozione di criteri programmatori e interventistici pubblici che John Maynard Keynes indicava come la nuova frontiera delle democrazie occidentali: «le forze che ci stimolano a pensare alla pianificazione provengono da due fonti diverse… Il piano quinquennale russo ha assalito e catturato l’immaginazione del mondo… E vi è una seconda forza che proviene dall’esempio: il Fascismo italiano che, nell’affrontare lo stesso problema con una mentalità opposta, sembra aver salvato l’Italia dal caos e stabilito un ragionevole livello di prosperità materiale in un paese povero e sovrappopolato»[5].
Il più chiaro prodotto della “rivoluzione antropologica” nittiana è quell’Alberto Beneduce cui Mussolini affiderà il salvataggio della Grande Industria nazionale, incapace di affrontare la riconversione post-bellica, attraverso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Ma l’identico taglio è riconoscibile in tutto il riformismo amministrativo dell’epoca; non solo in ambito economico (all’IRI si affianca l’Istituto Mobiliare Italiano, IMI), ma anche nella sfera previdenziale (Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale, INPS; Istituto Nazionale Assistenza Infortuni sul Lavoro, INAIL; Opera Nazionale Maternità e Infanzia, ONMI).
Una struttura che sopravviverà alla caduta del Regime, costituendo il tratto significativo del “caso italiano” del dopoguerra: quell’economia mista che farà da cornice al Miracolo Economico e che nel 1953 fornirà a Enrico Mattei il modello di riferimento per far nascere l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI); nel 1962 guiderà l’istituzione dell’ENEL. Difatti l’idea che sovrintende la politica di nazionalizzazione dell’energia elettrica è – ancora una volta – riconducibile alle pionieristiche battaglie di Francesco Nitti. Questo strano tipo di profeta, che mentre si avventura nelle visioni del futuro si porta appresso le zavorre del mondo antico da cui proviene. E che il profilo tracciato da Giovanni Vetritto non nasconde: un personaggio umorale e non di rado sprezzante, un bastian contrario non si sa bene se per arroganza intellettuale o partito preso. Per protagonismo. Difatti – di volta in volta – Nitti polemizzerà proprio con gli interlocutori che sarebbero naturalmente della sua parte, ma che potrebbero ingombrare la scena dell’intellettuale lucano: Salvemini, De Viti De Marco e Rosselli, La Malfa e Dorso.
Dunque, un one-man-show, il cui eclettismo scade talvolta nel nomadismo politico più insensato e autolesionistico: l’uomo che cooperò al fallimento del governo di Ferruccio Parri (e ai successivi insuccessi del Partito d’Azione, che lo condannarono alla scomparsa), è lo stesso che nel 1952, in un’Italia ormai dominata dalla Democrazia Cristiana, capeggia il blocco socialcomunista alle elezioni amministrative di Roma.
Insomma, quello che viene raccontato è lo strano connubio in un forte carattere di antico e moderno, di radicalismo orientato a politiche social-popolari ma che debbono essere guidate verticisticamente dalle élite illuminate; nella totale incomprensione del notabile, imprigionato nel sistema relazionale interpersonale e selettivo del parlamentarismo di vertice, nei riguardi della forma-partito di massa che andava imponendosi. La stessa miscela di antico e moderno nel concepire la modernizzazione del Mezzogiorno attraverso l’industrializzazione in una visione schematica e – tutto sommato – provinciale, che concepisce di promuovere solo i “settori di base”, a prescindere dalla loro metabolizzabilità da parte delle culture e degli ambienti in cui andavano a essere calati, ovviamente “dall’alto”.
Quell’errore di prospettiva che condurrà i Pasquale Saraceno a progettare la redenzione del Sud attraverso la siderurgia, i cui fallimenti si tradussero in quelle “cattedrali del deserto” che offrirono fior di argomenti ai denigratori preconcetti del ruolo propulsivo dello Stato in economia; poi daranno la stura a quelle operazioni di svendita le cui malefatte ben sono visibili nelle recenti ed inqualificabili vicende dell’Ilva di Taranto.
Ma non di questo sarebbe giusto fare carico Nitti. Che resta l’esempio di un liberaldemocratico radicale battagliero e generoso. Uno di quegli “antitaliani” condannati a una vita di straniero in patria; personalità divise anche perché intimamente “arcitaliani”. Comunque un uomo di frontiera, che pose problemi e cercò di risolverli con tutte le sue forze. Sicché appare condivisibile il bilancio che ne stila Vetritto: «nell’Italia entrata con difficoltà nell’Europa, e che ha tuttora il serio problema di far suoi gli strumenti per restarci, la figura di Nitti incarna gran parte di ciò che resta da fare; nelle sue opere possiamo trovare tesori di entusiasmo e saggezza da portare con noi».
NOTE
[1] F. S. Nitti, Discorsi parlamentari, vo. V pag. 2470
[2] P. Godetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1964 pag. 59
[3] P. Pellizzetti e G. Vetritto, Italia disorganizzata, Dedalo, Bari 2006
[4] ivi pag. 38
[5] J. M. Keynes, discorso radiofonico del 14 marzo 1932 in come uscire dalla crisi, Laterza, Bari 2004 pag. 59

di Pierfranco Pellizzetti

Clicca qui per acquistare il volume al 15% di sconto

Altre Rassegne