I vizi di una democrazia bloccata. La «Prima Repubblica» secondo Giuseppe Bedeschi

di Damiano Palano, del 30 Ottobre 2013

Da Rivista di Politica on line 

Per almeno tre decenni, fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, il tema principale della discussione politologica del nostro Paese rimase senza dubbio il cosiddetto ‘caso italiano’. Il cuore del dibattito era in effetti rappresentato dal tentativo di fornire una spiegazione delle diverse ‘anomalie’ della storia unitaria e della vicenda repubblicana. Le ben diverse tesi sostenute da Giorgio Galli, Giovanni Sartori e Paolo Farneti – centrate, rispettivamente, sulle nozioni di «bipartitismo imperfetto», «pluralismo polarizzato» e «pluralismo centripeto» – erano per esempio accomunate proprio dalla convinzione che tutti gli elementi del ‘caso italiano’ potessero e dovessero essere tenuti ben presenti per elaborare un quadro soddisfacente. A partire dagli anni Novanta, come ha sottolineato per esempio Luca Lanzalaco, questa convinzione si è invece fatta via via più evanescente. Il dibattito ha imboccato una direzione fortemente prescrittiva, più che le spiegazioni hanno iniziato a contare le ‘ricette’ di riforma istituzionale, e, in generale, molti osservatori hanno finito con l’accettare – e assecondare – l’idea che fosse incominciata una ‘transizione’ verso il modello della democrazia maggioritaria e che nulla legasse ormai il nuovo assetto alla defunta ‘Prima Repubblica’.

Naturalmente il ventennio che abbiamo alle spalle ha quantomeno indebolito l’idea che davvero fra il 1992 e il 1994 si sia consumata una cesura fra ‘vecchio’ e ‘nuovo’. E anche per questo è tornata a riemergere l’esigenza di uno sguardo disposto a fare i conti con la perdurante anomalia del ‘caso italiano’, rifiutando le scorciatoie autoassolutorie che consegnano le responsabilità delle mutate riforme alla parte politica avversa, e ricominciando a guardare la storia politica italiana con una prospettiva di lungo periodo. Un contributo a questo lavoro di ripensamento proviene da un recente volume di Giuseppe Bedeschi, La Prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, pp. 353, euro 19.00). Noto soprattutto per i lavori di storia della filosofia, dedicati al liberalismo, al pensiero di Rousseau, al marxismo, alla Scuola di Francoforte, oltre che alle ideologie del Novecento, Bedeschi si impegna in questo caso in una rilettura della vicenda repubblicana dall’Assemblea Costituente fino a Tangentopoli, con l’intento di colmare una serie di lacune relative ad alcuni momenti cruciali. Anche per questo, benché la ricostruzione si distenda per quasi mezzo secolo, senza tralasciare gli snodi più rilevanti della storia politica italiana, il libro di Bedeschi spicca soprattutto per l’interpretazione generale con cui vengono spiegati i fallimenti, oltre che i meriti, di una «democrazia difficile». Una interpretazione che, per molti versi, assegna un ruolo determinante all’impostazione ideologica dei gruppi dirigenti delle principali forze politiche, in larga parte inadeguati dinanzi alle necessità di un Paese incamminato verso una rapida industrializzazione e verso una ancora più celere modernizzazione della società.

Nel bilancio stilato da Bedeschi, l’unica fase veramente positiva è rappresentata dall’esperienza del «centrismo», perché proprio gli esecutivi guidati da De Gasperi, vengono considerati come gli artefici di «un vasto piano di riforme economiche e sociali, che cambiarono aspetti importanti della vita italiana, e che posero le premesse di un forte sviluppo, che sarebbe culminato nel ‘miracolo economico’» (p. 78). Assai meno positivo, e spesso del tutto negativo, è invece il giudizio formulato su altri passaggi storici importanti. Innanzitutto sul «centro-sinistra», in cui giocarono soprattutto le ambivalenze del Partito Socialista, guidato da un’impostazione largamente ideologica, e per questo incapace di affrontare in modo pragmatico le esigenze poste dal boom. E, in secondo luogo, il ciclo inaugurato dalla contestazione studentesca e seguito dall’«autunno caldo», le cui ricadute, secondo Bedeschi (che ripropone in questo caso la valutazione formulata da Rosario Romeo), ebbero conseguenze devastanti sia dal punto di vista economico, sia sotto il profilo politico, con la graduale maturazione del terrorismo. Meno drastico è invece il giudizio sull’esperienza del craxismo. Pur sottolineando gli aspetti deteriori del Psi degli anni Ottanta, Bedeschi rileva infatti come Craxi fosse riuscito a cogliere e a interpretare, più di ogni altro leader del periodo, le nuove istanze di una società ormai post-industriale e di un’economia via via più lontana dal fordismo. «Al Psi», scrive per esempio, «egli cambiò davvero la testa, staccandolo dalla tradizione marxista (e leninista), avvicinandolo alla cultura politica delle socialdemocrazie europee, ancorandolo a un’azione riformatrice che tenesse conto delle profonde trasformazioni della società degli anni Ottanta, quando la classe operaia non era più la maggioranza della società, quando era ormai superato il modello fordista di sviluppo capitalistico, fondato sulla grande fabbrica e sulla catena di montaggio, e quando il sorgere continuo di piccole e medie imprese, con nuovi metodi produttivi, aveva creato nuovi ceti sociali, nuove figure professionali» (p. 309). Ma, a dispetto di questi meriti, gli elementi negativi del craxismo (e, in particolare, una gestione spregiudicata del potere) ebbero alla fine la meglio, alienando al Psi le simpatie di quegli stessi settori sociali in cui auspicava di raccogliere i frutti di quell’avanzata che – nel gergo dell’epoca – doveva rivelarsi simile a un’«onda lunga».

Al di là del giudizio formulato sulle singole tappe di quasi mezzo secolo di storia repubblicana, la lettura di Bedeschi risulta soprattutto contrassegnata da un’interpretazione generale molto netta. Allineandosi a una lettura largamente condivisa, ritiene infatti che la gran parte dei limiti della ‘Prima Repubblica’ sia derivata dall’assenza di alternanza al governo: «Democrazia ‘bloccata’ significa democrazia senza alternanza. Ma l’alternanza è la grande, fondamentale risorsa dei sistemi liberaldemocratici» (pp. 337-338). E proprio da questo ‘blocco’ derivò, secondo Bedeschi, la tara principale del ‘caso italiano’: «Nell’Italia della Prima Repubblica tutto questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito, la Dc, e alcuni partiti suoi alleati, sono stati ‘condannati’ a governare. Di qui una inamovibilità del ceto politico, dei suoi grand commis, dei suoi ‘esperti’, dei suoi tecnici ecc. Di qui, anche, un continuo aumento della corruzione, grazie a quella inamovibilità» (p. 338). Questa ‘tara’ era però a sua volta favorita da una serie di ulteriori fattori, che in linea generale – sintetizzando la ben più articolata analisi condotta da Bedeschi – possono essere ricondotti all’estraneità alla cultura liberale delle tradizioni politiche italiane e dei gruppi dirigenti dei partiti di massa. Emblematico era ovviamente il caso del Pci, che, secondo Bedeschi, «rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla democrazia occidentale» (p. 337), persino nelle sue componenti più moderate, rappresentate per esempio da Giorgio Amendola. Ma anche il Psi e la stessa Democrazia cristiana si mantennero spesso molto lontani (almeno in alcune loro correnti) da un’accettazione incondizionata dell’economia di mercato e dunque dei principi di fondo della democrazia liberale. E proprio questo insieme di fattori condusse la Prima Repubblica verso il tracollo: «Democrazia bloccata, diffidenza di quasi tutte le forze politiche per il ruolo dell’impresa privata operante sul mercato, statalismo e assistenzialismo, Welfare troppo generoso, privilegi (fiscali e di altro tipo) per un numero elevato di corporazioni. Il quadro del Paese che emergeva nel 1992 era quello di una società largamente assistita, corporativa, immobile e corrotta […]. Gli italiani, sempre molto bravi ad autoassolversi, provarono sdegno per i misfatti commessi dai partiti e messi alla gogna da Tangentopoli. Ma essi dimenticavano di essere stati largamente complici di un sistema di dissipazioni, di cui avevano usufruito intere fasce della popolazione, interi ceti sociali […]. Un quadro dal quale emergeva la secolare diseducazione civile del Paese, che era giunto assai tardi all’unità politica, e che non era mai stato una nazione, se non in senso culturale. Inoltre, alcuni decenni di guerra civile ideologico-politica, dovuti al radicamento del più grande partito comunista occidentale, avevano diviso profondamente le élite culturali, rendendo loro impossibile quell’opera di agglutinazione degli orientamenti ideali, di formazione di un ethos collettivo, quale esse svolgevano in altri Paesi europei» (pp. 343-344).

La ricostruzione di ciascuna delle fasi cui Bedeschi attribuisce un ruolo cruciale richiederebbe un esame approfondito. In linea generale, è però difficile non condividere alcune delle tesi del volume, come in particolare quella secondo cui tutti i grandi partiti massa italiani esprimevano una distanza critica, più o meno ampia, dalla cultura liberale, soprattutto in campo economico, anche se, ovviamente, non tutti possono concordare con l’idea che proprio una simile distanza abbia dato origine a quelle distorsioni di cui gli italiani si trovarono, all’inizio degli anni Novanta, a pagare i conti. Nella direzione di un ripensamento della storia repubblicana italiana, sarebbe però necessario riconsiderare un punto specifico, relativo proprio alla tesi di fondo, secondo cui la ‘tara’ principale della Prima Repubblica sarebbe stata rappresentata dal suo carattere bloccato. Certo quella tesi rimane ancora oggi del tutto valida, perché sarebbe difficile contestare che l’assenza di alternanza abbia avuto effetti deleteri. Ma, d’altro canto, non possiamo neppure negare il fatto che quella spiegazione – che ancora negli anni Novanta conservava intatta tutta la propria suggestione – risulta oggi almeno in parte meno convincente che in passato. Se davvero il meccanismo dell’alternanza fosse in grado di produrre effetti moralizzatori su tutti gli attori del sistema politico, e se davvero il timore di essere puniti dovesse rendere responsabili gli eletti nei confronti dei loro elettori, allora tutte le ‘tare’ che contrassegnavano la Prima Repubblica dovrebbero essere svanite per effetto dell’avvento del bipolarismo e in seguito alla rimozione del ‘blocco’ costituito dalla presenza di un grande partito anti-sistema. In realtà, come anche l’osservatore più distratto può agevolmente riconoscere, e come ammette d’altronde lo stesso Bedeschi, la ‘moralizzazione’ della politica italiana resta ancora scritta nel libro delle buone intenzioni, la corruzione sembra tutt’altro che ridotta rispetto ai tempi di Tangentopoli e persino la gestione dei conti pubblici appare – nel corso dell’ultimo ventennio – solo moderatamente più ‘responsabile’ rispetto al passato (e più che altro per effetto dei vincoli esterni). Ed è forse per questo che oggi, senza certo abbandonare l’ipotesi della «democrazia bloccata», diventa necessario ricercare le radici di quel ‘blocco’ nel tessuto profondo della società italiana, nelle dinamiche della storia unitaria, e forse addirittura più indietro.

Di Damiano Palano

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