Dopo quattrocento anni rivede la luce il “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento con applicazione al Regno di Napoli”.

del 7 Ottobre 2013

Autore il dottore Antonio Serra da Celico, nel Cosentino, pensatore ed economista riconosciuto, seppur con qualche secolo di ritardo, a livello internazionale. L’opera, per la verità ristampata successivamente e non solo in Italia, questa volta torna fruibile per iniziativa di Rubbettino, con introduzione di Paolo Savona (della quale pubblichiamo ampi stralci nella pagina accanto), L’uscita del volumetto sera battezzata con la presentazione, 1’11 e 12 ottobre prossimi a Napoli, nel corso di un convegno internazionale di studi proprio per celebrare il quarto centenario del “Breve trattato”. Docenti di Università italiane e straniere si confronteranno, partendo dal pensiero di Serra, su argomenti economici di strettissima attualità: modelli di sviluppo, cambi (mercati valutari), liquidità. Di Serra si sa poco, se non ché in estrema sintesi nacque a Celico e scrisse il Trattato mentre era recluso a Napoli, pare (ma sarebbero più congetture e tesi di studiosi piuttosto che certezze) per l’accusa di aver preso parte a progetti secessionisti delle province meridionali. Di certo c’è, invece, che nella sua opera, Serra indica le cause a cui attribuisce la penuria di moneta nel Regno di Napoli (con raffronti rispetto ad altri modelli di “Stati” vicini, come Venezia e Genova), in contrapposizione a Marc’Antonio De Santis, «uomo prattichissimo in negozi», originario di Nocera de’ Pagani nei pressi di Salerno, «divenuto consigliere del viceré di Napoli, che attribuiva – ricorda il professor Savona nell’introduzione al Trattato di Serra edito da Rubbettino – alla mancata svalutazione del cambio la scarsità di moneta in circolazione, sia le (eterne) gravi difficoltà economiche in cui versava Napoli a cavallo del XVI e XVII secolo». L’opera di Serra era dedicata al viceré del Regno di Napoli, don Pietro Fernàndez de Castro, conte de Lemos, marchese di Sarria, conte D’Andrada e di Villalva… da cui pare sperasse – da recluso, sebbene privilegiato- di essere aiutato. Scrive tra l’altro di Serra per la Treccani Alessandro Roncaglia: «È un autore immune dal settarismo interventista come da quello liberista, che considera ammissibili gli interventi pubblici nell’economia quando siano diretti non a scontrarsi con gli interessi degli operatori individuali, ma a fornire a essi un quadro appropriato di condizioni entro cui operare. E un autore che non identifica la ricchezza con la moneta e i metalli preziosi, ma che, a differenza dei più schematici fra gli autori classici del Sette-Ottocento, coglie – quasi intuitivamente, potremmo dire – il rapporto di interdipendenza tra fenomeni finanziari e reali.

E un autore ancora non impacciato dalla concezione classica dell’homo oeconomicus: una concezione già di per sé meno rigida (nell’accezione smithiana ancor più che in quella ricardiana) della  concezione monodimensionale dell’homo economicus prevalente nella tradizione marginalista e quindi in larga parte della letteratura contemporanea. A Serra risulta naturale collegare aspetti politici (la “provisione di quel che governa”), sociali (“qualità de genti”) ed economici (“quantità d’artifici, […], trafico grande de negozi”): come dovremmo di nuovo imparare a fare oggi». E, lasciandosi andare alla tentazione di cercare a tutti i costi, ne “‘ operina” di Serra (come lui la definisce in chiusura) riferimenti applicabili all’Italia di oggi, il gioco – che naturalmente prescide da ogni pur minimo fondamento di scienza – diventa facile e quasi divertente per via del volgare, a tratti ostico, in cui le pagine sono scritte. E così, soffermandosi sulla prima parte dell’opera, quella in cui Antonio Serra analizza le variabili dalle quali, nella sua visione, dipende la prosperità di un Paese (“Delle cause per le quali li Regnipossa,noabbondare d’oro e argento”) si trovano “accidenti” (le circostanze più o meno favorevoli classificate dall’autore) di straordinaria attualità. A partire dalle penalizzazioni legate alla posizione geografica del Sud (allora come oggi in gran parte tagliato fuori dai mercati): basta leggere l’estratto dal capitolo “Dell’accidente comune, del trafico grande” che pubblichiamo nellapagina accanto. Ci sono poi espliciti riferimenti (quasi al limite del disprezzo) alla mancanza di intraprendenza negli affari. Scrive Serra a proposito di Napoli e del Regno: «(…) l’abitatori del paese sono tanto poco  industriosi, che non traficano fuora del loro proprio paese; e non solo non traficano nell’altre province di Europa, come Spagna, Francia, Alemagna e altre, ma neanco nella propria Italia; né fanno l’industrie del paese loro istesso, e in quello vengono a farle gli abit tori d’altri luoghi, principalmente della loro medesima provinzia, come sono genovesi, fiorentini, bergamaschi, veneziani e altri. E, con tutto che vedeno le predette genti far l’industrie nel loro medesimo paese e per quelle arrichirsi, pure non sono di tanto d’imitarli e seguir l’essempio, fatigando nelle proprie case». E dire che all’epoca non c’era neppure la “488”. Altro capitolo interessante è il n. 10 (lo pubblichiamo quasi per intero nella pagina accanto), In esso, con riferimento a Venezia, presa ad esempio di prosperità, Serra tratta della particolare forma di stabilità di governo. La continuità dell’assetto politico-istituzionale allora era garanzia dell’ordine. Con tutti gli innumerevoli e dovuti adattamenti alla realtà di quattro secoli dopo c’è da sorridere. E fors’anche da riflettere.

DI ROCCO VALENTI

Dal capitolo 5 (“Dell’accidente comune del trafico grande)”

Nel terzo loco succederà l’accidente del trafico grande, del quale suole essere potentissima occasione e quasi causa l’accidente proprio del sito del luoco, come s’accennò nel capitolo Dell’accidenti propri. E questo accidente del trafico farà abbondare il paese de denari, quandovi è in quantità, a rispetto delle robbe d’altri luochi che del paese istesso; perché il trafico, che è in alcun loco a rispetto delle estrazioni delle robbe proprie, quali superabbondano al paese, non può essere molto. E li denari, che vengano per tal rispetto, all’accidenteproprio della superabbondaziadelle robbe si deve dar la causa, e non al trafico; e quel che vi è, a rispetto delle robbe si portano da fuora per bisogno di se medesimo, lo farà impoverire, e non abbondare de denari. Sì che si conclude che in tanto il trafico grande farà il predetto effetto, in quanto sarà nel loco a rispetto delle robbe d’altri paesi per altri paesi, e così de’ negozi, e non a rispetto di esso medesimo; che fa icontrario effetto. Del qual trafico (come si èdetto) è occasionepotentissima e causa il sito; e che, dove è trafico grande, de necessità vi debbia essere quantità di mo- nete, non accadeprovarlo, poiché il trafico non si può far senza quella, e a tal fine si fa. E, si come si disse nel predetto capitolo, la città di Venezia tiene il primo luoco in Italia, non solo a rispetto della medesima Italia, ma a rispetto di tutta l’Europa, per ragione del sito: come si vede per esperienzia che tutte le robbe, che vengono d’Asia in Europa, passano in Venezia e di là si distribuiscono per l’altre parti; e così all’incontro le robbe, che vanno da Europa in Asia, similmente da quella se inviano: per il che vi è il trafico grandissimo, mentre da quella in tanti luochi se inviano tante robbe. E in questo non solo giova la commodità del sito, sì a rispetto dell’Asia per l’Europa e dell’Europa per l’Asia, ma a rispetto dell’Italia medesima, per andare la maggior parte de’ fiumi di quella nel suo mare, e questo facilitar la condotta di robbe per diversi lochi; e, oltra, ciò, è situata quasi nel fianco dell’Italia e non è lontana né dal capo né dalla coda (il che dona commodità per la condotta predetta): ma ancora giova la quantità dell’artefici che in essa si ritrovano, il cui accidente causa concorso grandissimo di gente, non solo a rispetto dell’artefici (ché, in tal caso, a quello si attribueria la causa), ma a rispetto del concorso di questi doi accidenti insieme, che l’uno somministra forza all’altro; (…) All’incontro, la città di Napoli e Regno non tengono altro trafico che quello che vi è a rispetto di se medesimo, e non d’altri luochi di fuora, come si vede per esperienzia che, fuorché le robbe che in essa nascono, poche o nulle se ne distribuiscono per alcun loco. E di questo è causa il sito pessimo del Regno, per questo effetto: poiché, estendendosi l’Italia fuor della terra come un braccio fuora del corpo (che per questa causa è stata detta «peninsula»), il Regno è situato nella mano e ultimaparte di detto braccio; sì che non torna commodo ad alcuno portar robbe in esso per distribuirle in altri luochi. E in tanto è vero che il sito del Regno per tal rispetto sia pessimo, che non bisogna mai passare per quello ad alcuno per andare ad altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno, se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada, o che vi vada per negozi propri: per lo che non solo non è commodo a’ negozianti portarvi robbe per distribuirle in altri luochi, ma incommodo e danno. E, concorrendo in Regno la detta qualità del sito con quella della gente senza industria e la povertà dell’artefici, di necessità viene a mancare l’accidente del trafico, che non vi può es- sere si non a rispetto di se medesimo; il che, oltre non possere essere grande, non può causare abbondanziadi denari, ma penuria, fuorché per l’estrazione della robbasoverchia, come si è detto.


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