Più creatività se non si penalizzano gli studi umanistici a scuola (Avvenire)

di Cesare Cavalleri, del 4 Giugno 2015

Dario Antiseri, Alberto Petrucci

Sulle ceneri degli studi umanistici

Orde di servi alla frusta di nuovi barbari

Da Avvenire del 3 giugno

Sia il filosofo Dario Antiseri, sia l’economista Alberto Petrucci, coautori di Sulle ceneri degli studi umanistici (Rubbettino, pp. 230, euro 13), si richiamano al saggio di Martha Nussbaum dal titolo eloquente Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, che Il Mulino tradusse nel 2011. Come dar loro torto, e come dar torto a Martha Nussbaum? Ma certo, gli studi umanistici sono importantissimi, indispensabili anche domani, e Antiseri, nella prima parte del volume confuta tutte le possibili obiezioni.
Innanzitutto, la scientificità non appartiene solo alle teorie empiriche che resistono al criterio di falsificabilità (Karl Popper è un altro nume tutelare dei due autori); ma non per questo le teorie filosofiche debbono essere tacciate di irrazionalità, dato che possono essere razionalmente criticate. E anche l’esperienza estetica e artistica, al pari di quella scientifica, ha “un carattere fondamentalmente cognitivo”. Per valorizzare la versione di latino spesso considerata, non solo dagli studenti, una “inutile tortura”, Antiseri si affida alla gratitudine di Czeslaw Milosz, Nobel 1980 per la letteratura, verso il suo torturante professore dilatino da cui apprese che «vale la pena di tendere alla perfezione e che essa non si misura con l’orologio». Del resto, anche Einstein sosteneva che la scuola non debba «insegnare direttamente quelle conoscenze specializzate che poi si dovranno utilizzare direttamente nella vita», bensì sviluppare «l’attitudine generale a pensare e giudicare indipendentemente». E, ancora con la Nussbaum, «soltanto una mente aperta è il più sicuro presidio di una società aperta». Nella seconda parte anche Alberto Petrucci esalta il valore educativo degli studi umanistici perfino per il dinamismo economico, come sostiene Edmund Phelps, Nobel 2006 per l’economia.
In particolare, poi, Petrucci perora in difesa del Liceo classico, «scuola ad alto valore aggiunto», di cui traccia la storia e di cui lamenta il declino. Il Classico, fra l’altro «è la scuola che insegna maggiormente a impostare e a risolvere problemi (problem setting e problem solving), stimola la creatività e il rigore logico-analitico».
La polemica pro o contro gli studi umanistici non è di oggi. «Soffia in tutti i paesi colti, con maggiore o minore violenza, un vento contrario all’istruzione classica», scriveva il pedagogista Aristide Gabelline . Quel vento ottocentesco diventò il turbine che, nel 1911, portò all’istituzione del “Liceo moderno”, senza greco e con meno latino, antesignano del “Liceo scientifico” voluto dalla riforma Gentile nel 1923.
Personalmente, ritengo che così come si è pervenuti alla “Scuola media unificata” per l’istruzione obbligatoria, sarebbe auspicabile una unificazione delle Scuole superiori che danno accesso all’università in armonica convivenza di materie scientifiche e umanistiche, lasciando agli istituti che si concludono con un diploma l’insegnamento prevalente di materie propriamente tecniche (ma l’italiano, almeno una lingua straniera e la musica dovrebbero essere d’obbligo per tutti).
In ogni caso, non bisogna enfatizzare troppo il ruolo di qualunque scuola, perché la cultura è pur sempre un affare di predisposizione e di auto ditattica. Non tutti i professori di latino sono bravi come quello di Milosz, e molti laureati hanno attraversato il liceo classico per dimenticarlo. Del resto, Eugenio Montale, anche se non amava ricordarlo, era ragioniere, e Salvatore Quasimodo, col diploma di perito industriale, tradusse superbamente i lirici greci, sia pure col determinante apporto della grecista Caterina Vassalini. Vale anche per l’università: Benedetto Croce non era laureato e il geniale Gio Ponti ottenne la laurea in architettura con il minimo dei voti.

di Cesare Cavalleri

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