Muro di Berlino: caduto con Renzi (Italia Oggi)

di Goffredo Pistelli, del 22 Aprile 2016

Da Italia Oggi del 22 aprile

Andrea Minuz è uno storico del cinema che insegna a La Sapienza di Roma, autore di un paio di libri importanti come «Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico» e «Quando c’eravamo noi. Nostalgia e crisi della Sinistra nel cinema italiano. Da Berlinguer a Checco Zalone», entrambi per Rubbettino.
Romano, 42enne, Minuz ogni tanto si legge sul Foglio o su Rivista studio ma è su Twitter, che distilla giudizi sapidi e controcorrente, partendo dal cinema ma non solo. Giorni fa, dopo le esequie di Gianroberto Casaleggio, ha tuittato che si sarebbe potuta scrivere la storia recente d’Italia in quattro funerali: quello del guru del M5s appunto, di Enrico Berlinguer, di Gianni Agnelli e di Alberto Sordi.
Domanda.Professore la storia di un paese attraverso i riti funebri. Perché?
Risposta. Facciamo una premessa.
D. Prego.
R. I funerali e i discorsi che li accompagnano sono delle straordinarie cerimonie simboliche: chiudono un’epoca e ne aprono un’altra. Questi quattro tracciano una traiettoria esemplare dei nostri ultimi 30 anni.
D. Come?
R. L’uscita del feretro di Casaleggio sul piazzale antistante Santa Maria delle Grazie, a Milano, al grido «onestà, onestà», chiude un cerchio. Quella parola richiama la «questione morale» lanciata da Enrico Berlinguer.
D. Era un’altra epoca.
R. Certo. Ma quel desiderio massimalistico di giustizia e superiorità antropologica riecheggia nello slogan milanese, svuotato della sua portata storica, e convertito in quel misto di giustizialismo, maoismo digitale e spirito new age che caratterizza i grillini.
D. La questione morale, 30 anni dopo.
R. Trent’anni segnati da una specie di estenuante elaborazione del lutto della morte del comunismo, che in Italia non s’è affermato ma ha avuto un peso schiacciante, soprattutto culturale, anche dopo la scomparsa di Berlinguer. Ovviamente non sto facendo alcun paragone tra Berlinguer e Casaleggio.
D. Diciamolo, o finiremmo scotennati dagli uni e dagli altri…
R. Infatti, ma secondo me, è proprio negli anni Ottanta che il comunismo, diventato politicamente irrilevante, si ritraeva nel mito per aumentare la propria influenza culturale, specie nella chiave della nostalgia. Un lutto perpetuo che ha continuato a mettere in scena questa tensione verso il raggiungimento di una società giusta, più che di una società che funziona, che già sarebbe una gran cosa. Lo diceva bene Edmondo Berselli.
D. Buonanima.
R. Quando parlava dei post-italiani venuti fuori dalla metamorfosi degli anni ’90, ormai estranei ai modelli ideologici del XX secolo. Berselli cercava di capire cosa stavamo diventando senza gli accenti apocalittici di Pier Paolo Pasolini.
D. Ma Sordi e Agnelli?
R. Beh la morte di Sordi rappresentò la fine di una certa idea di cinema, che aveva in Roma un carattere unitivo. Roma come sineddoche dell’italianità, un palcoscenico ideale del carattere nazionale da Roma città aperta fino, appunto, agli stessi funerali dell’Albertone nazionale. Quella romanità che, negli anni 2000, aveva difficoltà a continuare a esprimersi per le polemiche leghista su «Roma ladrona».
D. Vedevano in Sordi la quintessenza della romanità furbetta.
R. Tant’è vero che Walter Veltroni, a quei funerali, dovette specificare che era morto un attore italiano, non romano. Anche nel caso di Agnelli, che si celebrò a distanza di un mese, fra gennaio e febbraio 2003, si raccontava un’idea di italiano opposta e speculare a Sordi: mondano, internazionale, latin lover, mentre l’altro era la rappresentazione della commedia all’italiana.
D. Ecco spiegati i quattro funerali.
R. Forse avremmo potuto metterci anche un matrimonio, per fare il rovescio esatto del celebre film.
D. Nel caso, quali nozze si potrebbere accostare simbolicamente a esequie tanto simboliche?
R. Senza dubbio quelle fra Michelle Hunzicker ed Eros Ramazzotti, una specie di crepuscolo degli idoli degli anni ’90.
D. Il riferimento al giustizialismo mi fa venire in mente un tweet che lei ha scritto in questi giorni su Piercamillo Davigo e la sua celebre affermazione secondo la quale «le intercettazioni pubbliche non possono spaventare chi abbia la coscienza pulita». Lei ha concluso che c’è da aver paura.
R. Mi ha colpito molto quell’affermazione perché, se la senti al bar, come sarà capitato a chiunque, non fa paura. Sta in quel senso ottuso che esiste, che si sente anche in televisione.
D. E invece, detta da Davigo?
R. Detta da Davigo fa paura, perché è la versione alta, upper class, di un giustizialismo da bar.
D. Su ItaliaOggi, ha proposto agenti sotto copertura che vadano a corrompere i politici, dimostrandone la corruttibilità.
R. Spaventoso, sia perché pronunciato da qualcuno che ha i mezzi per realizzare una politica concreta, sia perché vedo un consenso possibile, come quello che andò a ingrossare la folla lanciatrice di monetine a Bettino Craxi davanti all’Hotel Raphael. Con la possibilità di una saldatura ulteriore.
D. Con chi?
R. Con la sinistra della Costituzione-più-bella-del-mondo, una delle peggiori retoriche messe in scena dalla cultura italiana dopo il fascismo.
D. In che senso?
R. Nel senso che è evidente che le costituzioni funzionano o meno, sono adeguate ai tempi o meno, e non sono belle come le poesie. Questa vocazione estetica del popolo di santi, poeti e navigatori è disastrosa: la legge fondamentale di uno Stato è un meccanismo storico che ha a che fare con i problemi e le trasformazioni della società. La retorica della bellezza che c’entra?
D. Cosa non le piace della Costituzione?
R. Ma prenda l’articolo 41, quello già criticato da Luigi Einaudi, in cui si vincola l’iniziativa economica privata a un’utilità sociale. Non ha senso, contraddice la libertà di iniziativa economica. Per quell’articolo, fino a pochi anni fa, abbiamo potuto viaggiare con una sola compagnia ferroviaria o scegliere al supermercato fra due merendine e non fra quaranta, altro che liberismo sfrenato.
D. Senta ma su questa Costituzione, di qui a ottobre, ne vedremo delle belle. I toni degli oppositori alla riforma di Matteo Renzi sono già scatenati. Gli intellò hanno già l’appello pronto.
R. Gli appelli degli intellettuali sono arrivati a una condizione grottesca. Ormai basta sapere che c’è un appello per buttarsi immediatamente dall’altra parte.Potrebbe essere un metodo scientifico. Gli intellettuali riescono a schierarsi in battaglie di retroguardia quando dovrebbero indicare il futuro. Invece, per loro, ieri sempre meglio di domani. Mi ricorda…
D. Le ricorda?
R. Le battaglie di L’Unità contro la costruzione dell’Autostrada del Sole che non erano diverse dalle parole d’ordine dei NoTav di oggi.
D. Bè, poi ci sono i personaggi dello spettacolo. Sulle trivelle hanno dato il meglio, da Adriano Celentano a Ficarra e Picone.
R. Vedo più rilevanti personaggi come Fabio Fazio, che incarna la cultura media da salotto e che, su RaiTre, riesce a fare la sintesi fra le pulsioni barbariche, che le dicevo prima, e i discorsi colti alla Gustavo Zagrebelski. Umberto Eco non ha fatto in tempo a scrivere la fenomenologia di Fabio Fazio, come fece per quella di Mike Bongiorno.
D. Allegria!
R. Sì, Fazio è l’every man dell’Italia di oggi, colui che spinge il politically correct alle estreme conseguenze e che piace anche al girotondo della signora borghese.
D. Dai tinelli ai salotti, insomma.
R. Fantozzi negli anni ’70 aveva la Domenica sportiva, oggi il lettore di Repubblica ha la parata dei personaggi ospitati da Fazio. Ma mi fa tornare un attimo su Davigo?
D. Prego.
R. Perché la miglior risposta a Davigo è venuta dal cinema.
D. Ossia?
R. Da Checco Zalone. Il quale ha commentato che, se è vero che il carcere fa così bene, che «rieduca», proviamo a mandare in parlamento i detenuti invece di mandare dietro le sbarre i parlamentari. In modo divertente ha irriso a questa retorica forcaiola, a questa atmosfera da pena di morte che spesso emerge dietro i fatti di cronaca. In un minuto di video.
D. Anni e anni di ragionamenti impegnati sul carcere. Ci voleva un comico.
R. Anche Cesare deve morire dei fratelli Taviani fu un gran lavoro sul carcere, ma alla fine restano più impressi film come Detenuto in attesa di giudizio con Sordi. Non a caso Zalone ha detto che Albertone è il suo modello.
D. A proposito di Zalone, ma perché è così detestato da un pezzo di sinistra?
R. Perché incassa, e perché a suo modo trova una sintonia con il paese e con il pubblico, quella cosa che per la sinistra cinematografica e politica è sempre stata un po’ complicata. Così Zalone diventa lo spettro verso cui proiettare le angosce per i consumi culturali degli italiani, le ansie per la loro ignoranza. L’unica ignoranza che ci angoscia è quella per la cultura alta.
D. E invece?
R. Invece i nostri giovani non hanno competenze economiche di base, non sanno cosa sia un’impresa, non sanno che cosa faccia per vivere quella persona che si chiama imprenditore.
D. Siamo il paese del liceo classico.
R. Per cui si sostiene una rigida separazione fra cultura umanistica e cultura economica, arte e soldi, con una forte diffidenza verso i secondi. Un vizio che abbiamo dai tempi di Carducci ma che poi il fascismo e le cultura cattoliche e comuniste hanno esasperato. Tempo fa, scherzando, proponevo un talent show in cui si mandassero cinque intellettuali a mettere in piedi, ognuno, una pizzeria, e altrettanti imprenditori del Nord Est a progettare best-seller.
D. Che succederebbe?
R. Che i primi, in cinque mesi, diventerebbero militanti di Forza Italia.
D. Ma eravamo a Zalone detestato da una certa sinistra.
R. La chiamo sindrome di Massimo D’Azeglio.

di Goffredo Pistelli

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