Recensione: Pulcherrima civitas Castriboni di Orazio Cancila (CastelBuono Live)

del 9 Settembre 2020

Il mestiere di (far ri) vivere
Uscito nei primi giorni di luglio scorso dai torchi dell’editore Rubbettino, si può considerare ‘fresco di stampa’ Pulcherrima civitas Castriboni, Castelbuono 700 anni, l’ultimo volume – ma sarebbe più giusto dire l’ultima faticaccia – di Orazio Cancila con il quale il professore emerito di storia moderna dell’Università di Palermo ci restituisce la ricostruzione di ampi intervalli di storia di Castelbuono.

Pulcherrima, infatti, non copre uniformemente i settecento (e più) anni della nostra storia municipale, né può essere considerato, nonostante la ponderosità, un volume unico rintracciandosi i suoi più immediati addentellati in Castelbuono medievale e i Ventimiglia (2010) e in Nascita di una Città. Castelbuono nel XVI secolo (2013), i due lavori di Cancila che precedono l’attuale e gli sono complementari. E alla stregua di quelle fràbbiche delle quali si sa quando si iniziano a costruire ma non quando potranno essere ultimate, il mastodontico lavoro di Cancila lascia evidenti i dentelli per le successive sopraelevazioni e integrazioni alle quali l’autore ha intenzione di mettere mano immediatamente, per completare doviziosamente le parti relative alla seconda metà del Seicento e al Settecento. Fermo restando, ci sia consentito, che il Novecento non può reggersi esclusivamente su fonti orali e sui dati tratti dal Bancarello, per quanto importanti. A parte il fatto che, in definitiva, sarebbe stato forse più congruo fissare il limite cronologico in corrispondenza della fine del secondo conflitto mondiale piuttosto che spingersi fino ad oggi.

Passando al volume, diciamo subito che riteniamo veramente lodevole la scelta di Cancila di togliere finalmente la messa a fuoco dai Ventimiglia, inopinatamente idolatrati dalla storiografia passata, e di spostarla decisamente sui castelbuonesi. Preoccupandosi, più di ogni altra cosa, di recuperare e ricostruire la storia di Castelbuono che è poi – per usare le sue parole – la storia dei castelbuonesi, cioè di quella moltitudine di individui che costituiscono il tessuto sociale, in definitiva, l’anima del paese e che con le loro alterne vicende e cogenti necessità di ogni giorno determinano l’incessante cambiamento del quadro economico, sociale, urbanistico, naturalistico della comunità di cui fanno parte. Nella quale niente rimane com’è: non solo l’uomo, il castelbuonese, biologicamente inteso, ma anche gli edifici che sorgono, si ampliano e poi decadono e si ruderizzano, per essere infine rimpiazzati da altri più confacenti alle nuove necessità. Parallelamente, cambia l’economia, cambiano le produzioni, e nelle fasi di espansione vengono attratti forestieri, soprattutto lavoratori specializzati e manovalanza provenienti da ogni parte d’Italia, che si stabiliscono in paese, incrementando la popolazione (quasi 1200 abitanti in più nei primi due decenni del Seicento) e, di conseguenza, il bisogno di abitazioni. Ciò determina lo stravolgimento della vecchia fisionomia e del vecchio assetto urbanistico di Castelbuono che fu città di giardini e di estesi viridaria sicomorum, ossia gelseti, data la fiorente industria del baco e del mangano, e che non è ancora la città della manna. Ecco, questa diuturna trasformazione del tutto intriga Cancila, orienta e anima la sua ricerca, ma prima di ogni altra cosa – com’è giusto che sia – stuzzica la sua inesauribile curiosità, il suo desiderio di conoscere le case a una a una, la terra, le terre, le ossa, al fine di sapere e potere dire: “ecco cos’ero prima di nascere” e prima che nascessero i miei nonni e quindi i nonni di questi ultimi e oltre. Fino ad Antonio Cancila (1553-1597) “il mio più antico progenitore patrilineare di cui conosco il nome: il quale nel 1593 rivelava un patrimonio di onze 88, senza alcun debito. […] Abitava in una casa solerata di quattro vani nel quartiere piazza dentro, quasi accanto alla chiesa della Misericordia […] Possedeva inoltre un piccolo uliveto nella contrada Santa Lucia, 150 pecore e 3 giumente d’armento”. Cancila ci ha insegnato che è assai importante analizzare tutti questi dati, questa ancestrale ISEE, che, composta con tutte le altre, restituisce informazioni dettagliate sullo stato di sviluppo di un paese a una ben determinata epoca.

Scrive Cancila nell’Introduzione: “Confesso che le mie ricerche su Castelbuono mirano innanzitutto a soddisfare la mia curiosità di castelbuonese e che godo immensamente quando riesco a ricostruire squarci perduti della sua storia […] a ricostruire le storie familiari, le ascese sociali, le cadute e i crolli”. Ecco, quindi, diversi bovari e curatoli che in breve tempo, sul finire del Settecento, diventano baroni, ai quali fa da contraltare la moltitudine di poveracci, risucchiata per sempre nel gorgo del “Mondo dei vinti” a pungolare il loro bove sotto le inclemenze del cielo, ma anche la miriade di contadini soffocati da ingordi proprietari terrieri con la disumana divisione dei raccolti “al terzo con la stima abbunata”, costretti a ricorrere sempre più spesso, per non morire di fame, ai pii soccorsi in natura offerti dalla Colonna frumentaria e dall’Opera della Cappella del Sacramento, senza peraltro poterli mai restituire. Vecchi e nuovi uomini illustri che si avvicendano, industrie che sorgono, industrie che svaniscono, nuove famiglie potenti che soppiantano le vecchie in una lotta che non conosce tregua. E poi i pretesi nobili, che a un certo punto, per nemesi storica, finiscono in miseria, dopo secoli di vita scioperata, di eccessi e di infami sfruttamenti ma senza tuttavia rinunciare ai loro patetici tocchi di malintesa grandeur, come quello, assai celebre, dell’ultimo barone Collotti che, ormai povero in canna, pur di “dimostrare la sua ricchezza (o la sua follia)” continuava ad accendere il suo sigaro con una banconota all’uopo incendiata. Senza dimenticare le plurisecolari vicende dei pastori che, a fronte di una vita estrema fra valli, balze, crepacci montani e asprezze climatiche, riescono ad guadagnare una rilevanza economica e un ruolo sociale di tutto riguardo e poi – è la lacerante realtà dei nostri giorni – crollare, dissolversi insieme alle pratiche e alle tradizioni del mondo silvo-pastorale. E infine, secondo la concezione circolare della vita e della storia, le ascese alternate ai declini dei mastri, autentica ricchezza intellettuale e di spirito di questo paese, ma anche della politica, che a intervalli più o meno regolari nei secoli ha conosciuto momenti di buio, per ritornare a essere palestra di dialettica e ad esprimere talentuose personalità. Cosa, quest’ultima, di certo non riferibile al presente.

Al di là delle ciclicità della vita sono però i fabbisogni, le produzioni, l’economia, le variazioni demografiche, i flussi migratori, le epidemie, l’urbanistica con le relative altalenanti vicende che costituiscono i capisaldi della lunga e non facile ricerca di Cancila, i copiosi dati scaturenti dalla quale vengono minuziosamente riorganizzati dall’autore con la sapienza e il collaudato rigore scientifico che ci sono note. Ecco, c’è nell’indagine, nelle analisi, nelle sintesi, nella metodologia del nostro benemerito Storico il segno, neppure tanto lieve, lasciato dalla Scuola degli Annales, la lezione di Braudel e, per avvicinarci al Mediterraneo e alla Sicilia, quella di Henri Bresc.

E’ una storia – quella proposta da Cancila – che ci piace; è un modo di fare storia – il suo – che ci piace ancora di più e non solo perché tende a realizzare l’agognata unione fra le “due culture”. Soprattutto, perché ci pare proponga un modello che potremmo definire democratico. La consolidata abitudine di riversare una enormità di dati nei suoi lavori, sembra, in realtà, un celata offerta di strumenti al lettore intraprendente perché possa eventualmente elaborarli e pervenire a conclusioni anche non collimanti con quelle dell’autore. In ogni caso, avere a disposizione tanti dati su una materia come la storia del nostro paese, farebbe felice qualsiasi lettore. Ora, essendoci nostro malgrado imbattuti in tanti, troppi, pretesi lavori storiografici redatti col piglio dello scritto apodittico e senza lo straccio di una pezza d’appoggio, ci sentiamo di plaudere a libri come Pulcherrima che attingono a piene mani ai documenti d’archivio e che diventano pietre miliari grazie alla comprovata destrezza di Cancila, non topo d’archivio – sia chiaro –, bensì scoiattolo degli archivi, sul calco di “scoiattolo della penna” coniato da Pavese per Calvino.

Non è di alcun rilievo ritenere che non saranno in tantissimi a leggere per intero questo importante e quasi definitivo lavoro su Castelbuono. Ci sentiamo, però, di affermare che diversi appassionati e curiosi lo assaporeranno volentieri, che non significa mandarlo giù tutto d’un fiato e senza alcun problema. Certo, al pari di Nascita di una Città (che avrebbe dovuto suggerire per la nuova pièce una uguale edizione in tre volumi), sia chiaro, questo non è un libro da comodino, visto che risulta scarsamente maneggevole anche sulla scrivania e, come gli altri libri di Cancila, non si legge ma si studia. Per un approccio non traumatico non sarebbe male che Pulcherrima – dove ogni lettore può trovare ciò che cerca della storia di Castelbuono – possa anche essere letto non interamente ma estrapolandone parti compiute, quali ad es. “L’età dei Levante” o “Leonardo Piraino” o, ancora, “La Ferriera” e così via di seguito. Pensiamo possa essere un buon metodo per iniziare. Fermo restando, e ciò è assodato, che, nonostante si leggano pochissimo, i libri di Cancila si consultano tantissimo. E con questo abbiamo implicitamente risposto alla domanda posta dall’autore nell’Introduzione: “nel presente volume […] ho voluto ricostruire la storia dei castelbuonesi. Dirà il lettore se ci sono riuscito. Per conto mio, posso solo dire che mi sono divertito”. Anche noi. Al punto da aspettare il seguito. Grazie, professore!

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