Quella “teoria” che può salvare l’Europa in bancarotta (Il Sussidiario)

di Maurizio Serio, del 15 Marzo 2013

Da Il Sussidiario del 12 marzo 2013

Alla luce del perdurante stato di crisi della costruzione europea, si ripropone a tratti ma con forza l’interrogativo sulla necessità o meno di un governo dell’economia e sulla gradualità di questo intervento. Tra keynesiani di ritorno e liberismi di facciata, il punto fondamentale non può che essere il rispetto della libertà individuale, quel grande portato congiunto dell’antropologia cristiana e del metodo liberale che sono alla base del progetto europeista dei Padri fondatori. Da più parti si palesa l’esigenza di fare chiarezza intorno a quale sia la prospettiva più adeguata perché questo sogno non si infranga sugli scogli della storia, e tra le risposte più autorevoli vi sono senz’altro quelle volte a fornire una rinnovata comprensione dell’economia sociale di mercato, come sistema aperto di inclusione della realtà effettuale all’interno della visione di governance della Unione europea.
È pur vero però che la medesima economia sociale di mercato è stata a lungo una categoria vischiosa delle scienze socioeconomiche, specie nell’interpretazione corrente datagli nel discorso pubblico. Compressa tra cattive declinazioni del suo statuto epistemologico e palesi avversioni motivate soltanto sul piano ideologico, questa prospettiva è tuttora alla ricerca di interpreti politici all’altezza dell’ispirazione dei suoi grandi teorici. Il traguardo da varcare è cioè la traduzione da pensiero economico a dottrina di governo, salvaguardandone il nucleo profondo di teoria liberale fondata sulle regole costituzionali e sul corretto intendimento del ruolo di arbitro delle istituzioni.
In questa direzione non si può che apprezzare il meritorio sforzo di Flavio Felice e Francesco Forte, che, dopo Il liberalismo delle regole (2010) portano all’attenzione del pubblico italiano, sempre per i tipi di Rubbettino, una seconda antologia dei principali interpreti e studiosi della Scuola di Friburgo e del neoliberalismo tedesco, i cui contributi (tradotti dal co-curatore Clemente Forte e da Guglielmo Piombini) sono ora raccolti nel volume L’economia sociale di mercato e i suoi nemici.
Ciò che subito colpisce il lettore anche non immediatamente coinvolto nello studio della storia e della tecnica economica, è il grande respiro di questa operazione culturale, volta a saldare i principi e gli input provenienti da queste prospettive di pensiero in chiave assolutamente interdisciplinare, feconda di connessioni e ricadute perfino sulla contingenza del dibattito politico continentale di questi mesi. Mi riferisco in particolare alla strenua opposizione a qualunque tentativo di legittimare posizioni neocorporative (cfr. p. 93) e soteriologiche sul ruolo dello Stato come terminale ultimo nella gestione della cosa pubblica, menando a pretesto la presunta incapacità delle istituzioni del libero mercato a gestire i conflitti sociali non meno che le tensioni politiche originate dalla grave crisi che sta ancora scuotendo la finanza globale e l’economia reale. Impegnati nelle sfide non meno gravi della ricostruzione dell’ordine post-bellico sulle macerie dolenti della hybris nazionalista, tutti questi autori (da Eucken a Böhm, da Muller-Armack a Lutz) mantengono ben chiara – pur nelle diverse sensibilità scandagliate alla perfezione dal saggio di Viktor J. Vanberg qui opportunamente riprodotto come epitome della nouvelle vague storiografica sul tema – la necessità di tutelare il cittadino consumatore dalle pretese onnivore della burocrazia welfarista giustificata in quegli anni da una pubblicistica mainstream d’impronta anglosassone che pareva aver obliato la lezione realmente liberale dell’illuminismo scozzese.
Il punto dolente, ieri come del resto al giorno d’oggi, è dato dal peso dell’istituto della rendita non solo all’interno della teoria economica ma della stessa cultura e prassi politica del Continente: in una parola, della costituzione materiale delle giovani e fragili (al momento forse esauste e traballanti) democrazie europee. Essi inquadrano cioè la rendita come il contraltare dialettico della concorrenza, intesa naturalmente, alla luce del principio di sussidiarietà di matrice cristiana, come sana competizione ma anche come libero sforzo di cooperazione tra tutte le sfere dell’azione umana. Dalla rendita originano i monopoli, ovvero quella forma di gestione centralistica ed escludente del potere, che comprime le libertà individuali ancor prima che i meccanismi del mercato (cfr. pp. 99 e ss).
Quanto alle prime, è per lo meno curioso osservare che sia uno studioso come Walter Eucken, figlio del filosofo idealista di Jena e premio Nobel Rudolf, e non l’ultimo sacrestano tradizionalista a connettere esplicitamente il movimento di progressiva concentrazione nello Stato di qualsiasi competenza a decidere sulla vita personale e associata dei cittadini/sudditi al parallelo diffondersi, già a partire dalla Modernità, di una filosofia nichilista tra le élites e le popolazioni europee, sino al ribaltamento de facto dell’imperativo categorico kantiano per cui “l’apparato diviene lo scopo, l’essere umano lo strumento” (p. 47).
Quanto ai secondi, è peraltro doveroso notare come non sia minimamente in questione l’adorazione di quel feticcio del laissez-faire smarritosi nelle fumose contraddizioni del libertarismo fino a diventare, con Rothbard, giustificativo persino degli accordi di cartello, in nome di una tara antropologica ispirata all’ottimismo della volontà più che a quel pessimismo dell’intelligenza che ha segnato invece il sereno fallibilismo di Hayek e di Buchanan (cfr. p. 148).
In definitiva, il liberalismo delle regole ha ispirato la ricostruzione armoniosa del secondo dopoguerra, vincendo sfide che sembravano insormontabili. Allo stesso modo oggi, davanti a minacce non meno angoscianti e pervasive, esso può accompagnare l’azione delle classi di governo dei Paesi europei, suggerendo la formazione di uno spazio poliarchico in cui gli attori – collettivi e individuali – del mercato e della società civile possano coesistere contando sull’imparzialità proattiva delle istituzioni politiche, statali e sovranazionali. Lo sviluppo non può passare da soluzioni autoritative calate dall’alto, ma deve discendere da una corretta e sistematica attuazione del principio di sussidiarietà, verticale e orizzontale, con l’obiettivo è di individuare quelle leve della crescita che una volta azionate possano produrre un capitale sociale europeo in grado di rigenerarsi ad ogni congiuntura come risorsa inesauribile di progettualità e di coesione fra i popoli e le istituzioni.

Di Maurizio Serio

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