Un romanzo e un film, per capire la Calabria (Lo Straniero)

di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi, del 24 Aprile 2014

da Lo Straniero del 24 Aprile

È quasi giunta a termine la lavorazione del film che Francesco Munzi ha tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco Anime nere, uscito presso Rubbettino nel 2008 e segnalato prontamente da “Lo straniero”, storia di alcuni giovani amici nella Calabria e nella Milano degli anni ottanta, coinvolti in faccende criminali negli anni di affermazione della ’ndrangheta. Il film che Munzi ne sta girando confrontandosi assiduamente con Criaco, si annuncia come uno dei più interessanti della nuova stagione del cinema italiano – che ha i suoi punti di forza, artistici e organizzativi, nelle opere di registi come Munzi, Rohrwacher, Frammartino, Mereu, Marcello, Minervini e altri ancora, assai più che nel cinema ufficiale e mainstream, anche di quello presunto “d’autore”. “Lo straniero” ha creduto opportuno parlarne con i due autori, non tanto sul piano estetico e cinematografico quanto su quello, più vasto, dell’interpretazione di ciò che accade in Calabria, in una realtà che pochi possono dire di conoscere fuori dai luoghi comuni del giornalismo e della politica.

Mentre Gioacchino è calabrese di Africo, tu Francesco non lo sei. Come hai reagito al confronto tra la Calabria di cui avevi letto nel romanzo e la Calabria che ti sei trovata di fronte nella lunga preparazione del film e adesso nella sua lavorazione?
Munzi. Io non conoscevo la Calabria se non come un luogo di passaggio, e per la verità nemmeno mi incuriosiva, non ne avevo memorie né cinematografiche né letterarie, a parte alcune reminiscenze scolastiche di Corrado Alvaro. Del libro di Criaco mi ha colpito innanzitutto il suo nucleo emotivo e la sua sincerità: la vicenda narrata nel romanzo ricalca il genere, è la storia di formazione di quatto ragazzini che crescendo diventano criminali collusi alla ’ndrangheta, una storia che mi ha colpito per il suo legame molto forte con la terra di Calabria e in particolare con l’Aspromonte. Questo dato allontanava un po’ la storia dal genere e mi affascinava perché vi intravedevo un microcosmo in grado di riflettere il macrocosmo: mi sembrava di poter osservare, dal punto di osservazione della Calabria, tutta l’Italia, sfruttando una prospettiva inedita. Ho sentito la necessità, a partire da questa attrazione istintiva, epidermica, di conoscere Gioacchino e di conoscere quei luoghi, di incontrare, come avviene quando si fanno dei documentari, delle persone reali che potessero corrispondere a quelle narrate nel libro, e pian piano sono entrato in una sorta di ossessione per la Calabria, gli ultimi tre anni della mia vita li ho passati là. Ho sviluppato un mio personale percorso, facendo cortocircuito con il libro, partendo da lì ma arrivando, nel film, a un’altra cosa. La Calabria è stata una lente per osservare cos’è successo in Italia negli ultimi decenni, dal terrorismo alla stagione dei sequestri alla grande ubriacatura degli anni ottanta e novanta. Attraverso una storia criminale si poteva rileggere la storia d’Italia. La storia della ’ndrangheta raccontata nel libro di Gioacchino e in parte nel film, è una storia che non può prescindere dalla questione del Sud e del Nord, da come è nato il nostro Paese e da cosa è diventato, perché la “questione meridionale” è ancora apertissima. La mafia, la ’ndrangheta, vanno collocate all’interno della nostra storia nazionale.
Criaco. La cosa che a me interessava, e che poi si è effettivamente realizzata, era di trovare uno sguardo esterno sull’ambiente che io avevo cercato di narrare, uno sguardo che mi restituisse nella maniera più libera possibile un punto di vista autonomo sulla Calabria, perché spesso chi è del posto ha una lente deformata su quello che vi è successo e vi succede e cerca solo delle conferme. In genere si hanno delle opinioni falsate dal fatto di non conoscere una realtà, di guardarla da lontano, con il binocolo, attraverso quello che altri ne hanno scritto, scrittori giornalisti sociologi, avendone un racconto che non collima con la realtà. Io ero incuriosito dal modo in cui Francesco avrebbe visto e capito, e a Francesco non ho mai detto “questo è bianco”, “questo è nero”, l’ho accompagnato evitando il più possibile di imporgli il mio punto di vista e di influenzarlo, e peraltro mi sono reso conto ben presto che sarebbe stato comunque difficile influenzare Francesco! Ma perché l’operazione avesse una qualche utilità, le cose dovevano andare così. Ho riconosciuto in Francesco una libertà, un’autonomia di pensiero e di sguardo che mi ha portato a chiedere io a lui di raccontarmi la mia Calabria, confrontandosi con i fatti che io ho raccontato nel libro, attraverso le persone che gli ho presentato, le loro storie. Anche per me è stata una scoperta, al di là di quello che è stato per lui. Temevo che quando il film sarebbe entrato nella fase esecutiva, il che significava entrare nelle case delle persone, nei posti più impensati, parlare con chiunque (perché sennò non sarebbe stato il film che Francesco voleva fare), saremmo entrati in una situazione delicata e perfino, forse, drammatica, mentre la sorpresa è stata che alla fine dei tre anni della preparazione del film Francesco è riuscito a entrare in case in cui magari io non ero mai riuscito a entrare, nelle camere da letto delle persone, a parlare con persone terribili di cui lui non conosceva la storia, e che magari avrebbe avuto paura a incontrare se ne avesse conosciuto in anticipo i trascorsi biografici. Non sapendo chi fossero, e parlandoci in modo del tutto naturale, Francesco è riuscito a far dire a queste persone quello che pensavano, ha permesso loro di spiegarsi; e fondamentalmente si è sempre trattato di un racconto su come erano diventati cattivi: dal punto di vista dei protagonisti del male, uno spogliarsi rinunciando a ogni pudore. “Questo è il male nostro, questo siamo, non quello che vedete in tv”, dicevano. E lo dicevano ai “buoni”, alla società civile, chiedendoci di essere noi a tirarne le conseguenze. Il loro è stato un racconto onesto, senza vie di fuga o scusanti, attorno alla domanda se il male fosse ineluttabile nel loro destino oppure se, in circostanze diverse, essi avrebbero potuto essere delle persone diverse. “Noi siamo diventati così, sta a voi spiegarci le dinamiche del nostro male”. Dalle nostre parti, e Francesco l’ha visto, c’è un conformismo esasperato: o sei buono o sei cattivo, e se c’è qualcuno di cattivo nella tua generazione, sei irredimibile. Francesco ha scoperto moltissime persone che poi nel film hanno recitato, oppure che hanno fatto gli autisti, gli elettricisti, nella troupe, ma hanno avuto questa occasione, e il film è stato anche questo, oltre ad aver dato voce a un territorio che non ha mai avuto la possibilità di esprimersi in questi termini; è stata l’occasione per qualcosa di molto concreto.

Tu hai spesso insistito sulla differenza della Calabria reale dalle immagini che ne corrono, da quello che ne raccontano i giornali, la televisione, i politici, i giudici. Questa differenza tra immagini e realtà tu, Francesco, dove l’hai constatata più in particolare?
M. La differenza sta nella comprensione dei fatti. Leggendo della ’ndrangheta dalle crona-
che giudiziarie io non capivo di cosa si trattasse, e invece per me era fondamentale, perché stavo affrontando una storia ben precisa che si intrecciava fortemente con la realtà della ’ndrangheta, però non capivo cosa fosse, mi sembrava una sorta di mostro nero dai contorni indistinti, avulso da un contesto. Varie persone mi avevano sconsigliato di entrare direttamente in contatto con Africo, Platì e San Luca, il triangolo delle Bermude della ’ndrangheta, perché avrei automaticamente lavorato con il male; ma io non volevo fare un film su Africo, lo volevo fare con Africo. Per me era molto importante interagire, conoscere, e parlando non solo con chi ha commesso reati ma anche con poliziotti, con persone che conoscono il territorio, ho capito che la ’ndrangheta è un’organizzazione trasversale che copre vari ceti sociali: dalle forze di polizia al potere giudiziario a quello politico, una ragnatela inestricabile che si è mossa in un vuoto di potere. La Calabria che ho conosciuto io ha un violento pregiudizio anti-statale; nell’intimo, ancora oggi nel 2014, si considera una colonia di Roma, come prima lo era del Piemonte. Su questo tessuto di idee, che poi sono le più pericolose perché, come diceva Dostoevskji, sulle idee sbagliate si può innestare il male, si trova l’alibi per qualsiasi cosa. Su un territorio del genere, che non ha più punti di riferimento e dove lo Stato non è lo Stato perché a volte va a braccetto con il boss locale, il Sud riflette i mali dell’Italia all’ennesima potenza.

L’identità calabrese nasce soprattutto in negativo a un’idea molto astratta dell’Italia…
M. L’identità della montagna, dell’Aspromonte, a volte è autentica e a volte è mitica e un po’ insincera, una sorta di idillio perduto…

Nicola Zitara costruì qualche decennio addietro un immaginario calabrese che, anche se con molti elementi di verità, non corrispondeva del tutto alla realtà. E a me sembrava la difesa di una borghesia calabrese, molto più che della Calabria.
C. Zitara era di origini amalfitane, veniva da una famiglia borghese che si era spostata nei paesi abbandonati della costa jonica calabrese abitati quasi esclusivamente da comunità immigrate da Amalfi, da Napoli. Francesco ha ragione, c’è un racconto epico che noi ci siamo costruiti e che è “falso” perché si basa su una identità che non appartiene a tutti ma invece a pochissimi: se chiedi a cento persone di Africo dov’è una certa montagna, una conca specifica, quasi nessuno te lo sa dire, perché quasi nessuno è salito in montagna. Dopo l’alluvione del 1951 tutto si è spostato a valle, e gli abitanti della nuova Africo non conoscono nulla della montagna, se ci parli ti fanno tutti il racconto di qualcosa che in realtà non conoscono, perché la montagna la conoscono soltanto quelli che, per costrizione dei genitori o per necessità, hanno continuato a fare i pastori. Gli altri della montagna non ne sanno nulla.
M. C’è stata una frattura violentissima nel paese di Africo, che per me è il simbolo di quello che ho raccontato nel film e della zona jonica. Africo è uno dei paesi più isolati d’Italia, un paese poverissimo di pastori e contadini che a un certo punto è stato spostato, deportato. Con la scusa di una ricostruzione, e quindi di un appalto (è una storia che ha raccontato Corrado Stajano nella sua vecchia inchiesta), tutta la città è stata portata sul mare. Questa è una vicenda che mi ha ricordato anche la Sardegna, di gente che non guarda il mare anche se è il più bello del mondo ma guarda indietro, guarda alla montagna. Con lo spostamento improvvisamente la popolazione di Africo è diventata una delle più pericolose e malavitose della costa jonica, dove gli stessi calabresi hanno paura ad andare.
C. I ragazzi che sono partiti da là in realtà sono andati dappertutto in Europa. E sul posto è maturata la violenza perché, dopo millenni di vita in montagna, le persone sono state spostate verso un mare che tradizionalmente era il luogo della minaccia, da cui sbarcavano gli invasori. Ancora oggi i vecchi non si avvicinano al mare a meno di cinquecento metri dalla riva, perché hanno mantenuto questa paura. Tu li porti a settanta chilometri di distanza da dove sono nati e cresciuti e hanno messo su famiglia, non fai una strada di collegamento e quindi tagli i ponti non solo con la loro terra ma proprio con la loro identità, e li chiudi in un chilometro quadrato di territorio in mezzo ad altri comuni che hanno origini diverse… e da questo è esplosa una violenza pazzesca. La scusa per portarli via era che in montagna morivano di stenti e di malattie. In questi giorni ci sono stati un servizio di “Presa diretta” e un articolo sul “Corriere della sera”, perché si è scoperto che in ogni strada di Africo ci sono trenta-quaranta morti per tumore, nelle vie delle case popolari. Io nelle case popolari ci sono nato, e so quanto è vero e quanto non lo è. Li hanno portati via da Africo vecchia per non farli morire e adesso in ogni famiglia ci sono uno-due morti di tumore. Gli hanno tolto quel poco di terra che avevano, oggi non possono né coltivare né fare i pastori, li hanno portati lì a morire, e qui si deve tornare a quello che diceva Francesco. Tanti calabresi hanno avuto bisogno di quest’alibi, perché per fare il male tu ti devi convincere che sono gli altri a sbagliare. La differenza tra le
generazioni passate e quelle di adesso è che le prime si riferivano a un complesso di valori morali, per violare il quale dovevi convincerti che erano gli altri i nemici, mentre adesso la situazione è diversa: quel complesso di valori morali non esiste più, e al suo posto si è costruita una cultura del nemico che paradossalmente li ha tenuti in vita per fare il male agli altri ma allo stesso tempo anche a se stessi.

Siamo tra Omero e il film western! Con tre categorie di “eroi”, i pastori, i contadini e accessoriamente i marinai, su un territorio tutto sommato piccolo, e questo ha creato e crea ancora tensioni di tipo economico, rivalità, perché è chiaro che i contadini cercano di espandersi e i pastori si sentono assediati, e finisce che ci sono degli scontri interni e nascono organizzazioni di autodifesa che poi diventano molto rapidamente criminali.
M. La domanda che mi pongo, e che mi risuona tuttora stranissima, è perché, in un territorio così isolato, così fuori dal mondo, un gruppo di caprai diventano i più grandi spacciatori di cocaina d’Europa. Una Calabria tra arcaico e postmoderno…

L’ingresso nella modernità per i protagonisti di Anime nere, come racconta Criaco nel libro con una dilatazione un filo mitica, passa per loro dal rapporto con Milano…
C. Un legame senza mediazioni, senza terre di mezzo, o la Locride o Milano… La presa di possesso della Milano socialista, dove i giovani che ho raccontato hanno trovato le porte aperte, e da contadini, da pastori, si scoprirono questa capacità tutta pratica di entrare nei meccanismi del denaro. Prima a Milano e poi nel mondo.

È la storia del capitalismo che si ripete, secondo archetipi che mi hanno fatto pensare persino a Brecht, secondo un certo marxismo cinico che però sa veder bene i meccanismi dell’economia, i suoi modi di corrompere. Raccontare con le parole questi fenomeni credo sia più facile che raccontarli con le immagini, le immagini possono parlare al di là delle intenzioni di chi le prouce. Per me la Calabria dal punto di vista cinematografico è stata a lungo Il brigante Musolino e Il lupo della Sila, una visione melodrammatica e folklorica, e poi Amelio, con una visione “da dentro”, più intima; ma soprattutto ci sono stati tentativi recenti, e riusciti, molto belli, di Alice Rohrwacher e di Michelangelo Frammartino, che hanno scavato in qualcosa di molto profondo, ma che non hanno messo il dito nella piaga più grossa, quella della malavita…
M. A livello visivo io mi sono dato degli schemi, anche se, non avendo ancora finito di girare il film, è un po’ strano parlarne… Siamo partiti dal macrocosmo, anche per la sceneggiatura. Il film inizierà a Città del Messico, e attraverso la storia di tre fratelli passerà da Milano per arrivare nel cuore dell’Aspromonte. Per me la Calabria è divisa in due, c’è Africo vecchia, che resta un punto di riferimento ancestrale imprescindibile, la grande matrigna che continua a vincere su chi vi è nato, anche sui personaggi che vivono in Sudamerica o a Milano, e la Calabria diciamo di Amelio, quella violata delle coste. E tra le due c’è Milano. È una sorta di viaggio a ritroso di personaggi che sono dei camaleonti, che si sono imborghesiti, che hanno studiato e che insomma hanno più pelli di cui man mano nel film si spogliano per tornare alle capre da dove sono partiti… Sono degli schizofrenici che hanno perduto un’identità vera. Però, siccome i grandi temi mi fanno un po’ paura, ho preferito partire da una storia più piccola, delimitata, e ho raccontato la storia dei rapporti tra fratelli e tra un padre e un figlio, sono andato su terreni più personali, e ho lasciato tutto il resto su uno sfondo mai oleografico ma indiretto, non preso di petto.

Tu Francesco sei amico di Mereu e hai certamente visto Sonetàula… I pastori si somigliano dappertutto, dall’Asia centrale alla Calabria, dall’antichità a oggi, hanno un rapporto particolare con la natura e con la violenza, allevano animali a cui si affezionano ma poi li ammazzano, sono abituati al sangue.
M. Se fosse stato Gioacchino ad aver fatto il film dal suo romanzo, sarebbe stato più simile a Sonetàula di quanto non sia il mio film rispetto al suo libro, dove probabilmente c’è una distanza maggiore, anche perché Salvatore proviene dal mondo che ha raccontato. Io ho messo dei filtri in più, ho una visione dei personaggi più distaccata rispetto a lui, non c’è niente che possa sapere di autobiografia.

E rispetto a Saimir, ai personaggi degli immigrati, un modo che ti era in partenza estraneo?
M. Alla fine si fa sempre lo stesso film… il mondo della Calabria è diverso da quello albanese, ma il nucleo centrale sono sempre i conflitti interfamiliari. Io la passione la trovo solo se spogliata dalla sociologia… In Anime nere c’è un conflitto generazionale al contrario. Paradossalmente, mentre in Saimir sentivo molto le ragioni del figlio, in questo film sento di più quelle del padre, forse dipende dall’età! Il padre qui è uno dei tre fratelli, che sogna l’utopia folle di tornare a una Calabria pre-boom, “onesta” ed esente dalla corruzione. Ovviamente fallisce, e il rapporto deflagra…

Criaco si serve molto nel romanzo del confronto montagna-città, Calabria-Milano. Il libro racconta come nasce la criminalità moderna, nel rapporto tra l’arcaico dell’Aspromonte e il moderno della città craxiana, tra il capobastone calabrese e il capobastone della politica e dell’economia di quegli anni, un confronto storicizzabile…
C. L’errore che si fa sempre è quello di considerare il criminale calabrese sempre come uno ’ndranghetista, cosa che all’origine non era, e la differenza anzi era molto sentita: alcuni criminali odiavano la ’ndrangheta considerandola una sorta di quinta colonna dello “Stato invasore”, e consideravano la ’ndrangheta come un cavallo di Troia per entrare nei territori e bloccare la tensione sociale originaria. Sinora questa distinzione non era mai stata esplicitata. Questa differenza si annullerà più tardi dentro un discorso semplicemente economico, ma c’è ancora oggi chi rivendica orgogliosamente di essere un criminale ma non uno della ’ndrangheta, perché quello è considerato il livello morale più basso che esista. Questo spiega anche perché ci sia stata una ‘ndrangheta fortissima negli anni novanta dovuta in qualche modo anche alla copertura dello Stato, che ha perso molto potere negli ultimi anni con il paradosso che adesso ci viene raccontata dai media come l’organizzazione criminale più potente del mondo, cosa che secondo me non è.

Girando per la Calabria si ha l’impressione che a livello politico la ’ndrangheta conti molto meno della massoneria e di altre organizzazioni semi-legali che tengono insieme chi aspira a essere classe dirigente… Sono i rappresentanti dei vari poteri, i grandi professionisti, la sanità, certi sindaci… Le organizzazioni parallele, di tipo massonico e non solo, le asso-
ciazioni professionali, sono il vero tramite per arrivare al denaro e al potere. La Calabria, da questo punto di vista, è ben diversa dall’immagine che ne viene comunemente data.
C. La Calabria è completamente subordinata alla massoneria, alla politica… una ’ndrangheta che fattura sette miliardi di euro l’anno in cui trovi, oltre al grande criminale, anche i morti di fame, ed è questa una cosa che non ha spiegato nessuno. Ho cercato di farlo, con le mie forze. E la differenza di Francesco dagli altri registi che hanno narrato la Calabria è che Francesco, per mia esperienza diretta, è fisicamente andato in luoghi che nessuno ha mai visto o conosciuto, luoghi dove non va nessuno, perché se cerchi un contatto istituzionale ti viene detto che lì è meglio non andare, mentre lui ha osato, ed è andato in posti dove non si reca nessuno.

Francesco, tu avevi qualche modello cinematografico a cui rifarti, anche nel modo di girare? Di solito stai abbastanza addosso ai personaggi, sempre fisicamente ben collocati nel loro ambiente, in te c’è sempre un’attenzione molto forte alla diversità degli ambienti che si attraversano, al peso che hanno rispetto all’identità dei personaggi.
M. Un’estetica la trovo solo strada facendo… Anche in questo caso mi sembra che aver mescolato attori e non attori e il fatto di aver usato il dialetto abbia portato il film verso il documentario; d’altro canto, abbiamo anche ricostruito certe cose con estrema attenzione. Non so sinceramente cosa ne risulterà. Fare questo film mi ha un po’ spiazzato, mi sembrava di fare una cosa molto più documentaria di quanto invece non sia uscito, perché invece il film è di un’astrazione notevole perché le cose troppo naturalistiche non mi piacciono, mi sembrano il telegiornale. Cerco di pulire molto la forma, eppure c’è una certa brutalità nella scelta della lingua che i personaggi parlano, una lingua molto aspra e difficile, e il paesaggio è davvero molto presente. Le due settimane passate in Aspromonte con la troupe hanno fatto scattare qualcosa di molto forte: da Africo vecchia si vede la Sicilia, l’Etna… hai la sensazione di stare fuori del mondo, su un’isola deserta. Questo mi ha stregato, spero che in qualche modo nelle immagini quest’aspetto sia molto presente. Più in generale, posso dirti che l’aspetto criminale è diventato il nucleo ma anche la scusa per parlare d’altro, per parlare di uno scontro tremendo avvenuto in questo paese tra diverse generazioni.

C’è anche la questione della bellezza. Io mi innamorai della Calabria tanti anni fa a Tiriolo, nel castello, quando mi trovai davanti lo Jonio, il Tirreno, l’Aspromonte, alle spalle la Sila, Stromboli e le Eolie alla mia destra, lontane, e poi l’Etna fumante, e un mare enorme dove sfrecciano navi… un paesaggio sterminato. Se ti metti dal punto di vista del pastore o del contadino, ti ritrovi dentro un contesto incredibile, da inizio del mondo, da giorni dell acreazione…
M. Tanto forte è nelle montagne l’elemento dello stupore, quanto le coste sono invece malinconiche, e danno il sapore dell’occasione perduta, di qualcosa che avrebbe potuto essere ma non è stato, un anello spezzato dell’Italia: la brutalità della Calabria jonica mi ricorda molto tutta l’Italia, la mancanza di progetto, la razzia…

Ma hai detto che il film comincia a Città del Messico. Cosa c’entra il Messico con la Calabria?
M. Banalmente, il Messico è un ganglio centrale del narcotraffico internazionale, però l’apertura con Città del Messico voleva essere il cortocircuito tra macrocosmo e microcosmo, un mondo senza più confini dove si muovono i protagonisti della vicenda, che poi tornano ad Africo. È stata un’idea di Gioacchino, che non c’era nel libro, il passaggio dai grandi alberghi internazionali di Città del Messico al desiderio, a Milano, di rubare un capretto per mangiarselo, lì in Brianza.
C. Tra le regole che i personaggi sono convinti di avere c’è il legame profondo con le loro origini, l’idea di non essere stati cambiati dai soldi, di continuare a combattere i nemici di sempre per difendere se stessi e l’Occidente, perché sono anche convinti di aver fermato i musulmani, di essere l’ultimo baluardo a difesa dell’Occidente! La razzia sta continuando, ci sono vari progetti, il rigassificatore a Gioia Tauro, l’oleodotto dall’Ucraina, per cui sopravvive questo sentimento di ultimi difensori di un mondo che tutti si stanno spolpando. E questo è un grande alibi. Finto o reale che sia, in questo stanno le radici del male, nel sentirsi attaccati da tutti.

Tu prevedi delle resistenze possibili, al di là del fronte criminale, o ci saranno solo patteggiamenti e cedimenti?
C. Ci sono stati grandi cedimenti negli anni, piccoli focolai qua e là, ma non è escluso che ci possa essere un grande incendio, prima o poi. Prima c’era almeno la speranza di andare viaper arrivare da qualche parte, adesso non ci sono nemmeno più posti dove andare, ormaimanca anche quello sfogo.

Gli attori parlavano in dialetto o sono stati doppiati?
M. Quasi tutti gli attori erano calabresi, solo alcuni siciliani che hanno imparato, grazie a uncoach, il calabrese di Africo. Abbiamo inventato una lingua, comunque abbastanza precisa dello Jonio, e il passaggio dal dialetto all’italiano sarà molto probabilmente una cartina di tornasole della trasformazione dei personaggi, del cambiare pelle.

I tre fratelli mi hanno fatto pensare a un film di Rosi, su tre fratelli che tornano in un paesino al confine tra Puglia e Lucania memore di Carlo Levi, e sono un maestro che lavora a Napolinella rieducazione, un giudice, un operaio immigrato a Torino, insomma una metafora dell’Italia di allora, delle sue varie forze divise, che si ritrovano per la morte della madre dopo aver fatto scelte molto diverse, più o meno rappresentative di una certa sinistra italiana. Tu i tre fratelli li vedi come prospettive diverse? Perché nel libro non è così, non c’è metafora.
C. Ognuno di loro rappresenta un livello diverso: uno ha sposato una milanese, si è trasferito lì, ha tentato di emanciparsi dalla Calabria, ma alla fine ci ritornerà con gli altri, il secondo si è trasferito in Sudamerica e l’ultimo è rimasto alle capre, come il padre. I primi due sono criminali, il terzo no, ma ha un figlio che vuole emulare gli zii, e riaccende per stupidità una faida ormai sopita da tempo. Nonostante l’attenzione al documentario, una cosa che ti unisce a Gioacchino è, Francesco, una fortissima attenzione o vocazione al romanzo, alla narrazione ampia e articolata che dice, che racchiude esemplarmente…
M. Lo scontro tra i tre fratelli non avviene su un piano simbolico-sociologico ma, diciamo, sulla scelta del fare o non fare la guerra. Sì, è una cosa che mi viee anche quando cerco di fare documentario, quando cerco di avere un approccio mimetico con la realtà. È una cosa dalla quale non posso prescindere, il romanzo…

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