«L’Europa unita si dividerà tra Stati padroni e vittime» (Il Giornale)

di Dino Cofrancesco, del 17 Ottobre 2013

Da Il Giornale del 17 ottobre

Un luogo comune duro a morire vede nel liberalismo una filosofia politica coerente, relativamente semplice, fondata su pochi principi fondamentali – riconducibili all’individualismo, al primato della libertà e al ruolo ancillare dei diritti – e caratterizzata da un uso critico della ragione che la immunizza dalle grandi semplificazioni di cui si nutre la sindrome totalitaria. In realtà, il mondo e la storia sono molto più complessi di quanto non ritengano i tanti Simplici liberali del nostro tempo. Come ci sono democrazia e democrazia, socialismo e socialismo, fascismo e fascismo, così c’è liberalismo e liberalismo: a voler individuare un comune denominatore per quanti si richiamano ai padri della società aperta, da Locke a Isaiah Berlin, ciò che viene in mente è solo una definizione negativa ovvero la netta e irriducibile contrapposizione a quanti – in nome di Dio, della Natura, della Storia- restringono i diritti di libertà, sacrificando la vita e la felicità degli individui. Su molte questioni cruciali, invece, i liberali restano divisi e persino portati a scomunicarsi a vicenda.
Si pensi a quanti, nelle loro analisi della Costituzione e del sistema politico nordamericano, esaltano in Thomas Jefferson l’espressione del vero liberalismo, giudicano i suoi avversari, Alexander Hamilton e James Madison, statalisti e giacobini e fanno del democratico Abraham Lincoln un protonazionalista.
Questa premessa storico-culturale era necessaria per far comprendere l’originalità, e diciamo pure l’inattualità, della raccolta di scritti di Raymond Aron, Ildestino delle nazioni. L’avvenire dell’Europa a cura di Giulio De Ligio e con Prefazione diAlessandro Campi, edita da Rubbettino. Come i grandi pensatori dell’Ottocento, da Tocqueville a Marx, Aron si tiene lontano dalle astrazioni, rifuggendo da ogni teoria normativa che fissi il chiodo al quale appendere le regole di una Giustizia dedotta dalla Ragione. Sono i fatti, la storia, la vita reale vissuta dagli uomini in carne ed ossa a mettere in moto la sua intelligenza, a fargli avanzare ipotesi interpretative sempre caute ma spesso lungimiranti, a tenerlo in continuo dialogo con i classici del pensiero politico che sono tali proprio per il continuo cimento con l’esistenza umana nella varietà inesauribile delle sue determinazioni. Allergico a ogni trionfalismo europeista, diffidente verso quanti sostituiscono all’uomo nero della protesta proletaria – il capitalista – il (presunto) Moloch dello stato nazionale, reso responsabile di tutte le tragedie del secolo breve, Aron è un liberale a tutto tondo consapevole che le forme di governo (liberalismo, democrazia, socialismo, conservatorismo) non si realizzano nel vuoto, grazie al fiat della ragion pura, ma stanno sul suolo della comunità politica che nella vecchia Europa è lo Stato nazionale. Come scrive in un saggio del 1974, «in realtà, chiunque abbia conosciuto l’esperienza della perdita della propria collettività politica ha provato l’angoscia esistenziale (fosse anche temporanea) della solitudine; che cosa resta in realtà all’individuo, nei periodi di crisi, dei suoi diritti umani quando non appartiene più ad alcuna collettività politica?». Gli interessi in senso lato – il piano della società civile – non hanno mai unito gli individui e le tribù: senza un progetto politico, senza valori che stiano al di là della tecnica e del mercato, si stipulano accordi, anche stabili, fondati sulla reciproca convenienza ma non si fondano quelle realtà corpose per le quali si è disposti a dare la vita. «Non si creano le patrie a comando. È facile dire, ed è vero in astratto, che gli Stati nazionali sono anacronistici perché sono incapaci di assicurare da soli la propria difesa. Mai sentimenti dei popoli non si trasformano alla velocità del progresso industriale. Le passioni nazionali passano per essere in via di estinzione (ancorché le rivalità sportive bastino a riaccenderle), ma esse sono rimpiazzate da passioni ideologiche. I francesi indifferenti al destino dellaFrancia in quanto tale sono o i comunisti che amano la patria dei loro sogni e l’impero in cui trionfa la loro religione, o quelli che hanno solo delle preoccupazioni personali. L’idea europea è vuota; essa non ha né la trascendenza delle ideologie messianiche né l’immanenza delle patrie carnali. È una creazione di intellettuali, il che ne rivela allo stesso tempo l’opportunità per la ragione e la debole risonanza nei cuori».
Aron non si nasconde certo la crisi in cui le due guerre mondiali hanno gettato l’Europa, né l’utilità di forme di cooperazione tra i vecchi stati del continente (personalmente si era battuto per la CED, l’esercito europeo naufragato sul veto francese). È l’implacabile realismo che mai gli dà tregua a fargli scorgere sempre il rovescio della medaglia contro i facili ottimismi. Scrive, ad esempio, a proposito dei vantaggi del mercato comune europeo: «Si può dire che un’unità economica tragga globalmente vantaggio dall’allargamento del suo spazio. Non si può invece dire che tutte le parti di quella unità ne beneficino allo stesso modo, e non si può dire che nessuna delle parti della nuova unità sarà colpita dalla creazione dell’insieme superiore: il Sud degli Stati Uniti è stato per decine d’anni vittima del mercato comune degli Stati Uniti, e il Sud dell’Italia si è deteriorato in seguito all’unità italiana. In qualsiasi unità economica nazionale l’industria tende a concentrarsi in certe regioni. La stessa concentrazione rischia di prodursi nell’unità europea: una data nazione, o una data regione dell’una o dell’altra nazione, rischia di esserne vittima». Da nessuna parte, aveva scritto nel 1957, «la chiusura delle fabbriche in nome dell’Europa sarà accettata».
Leggere Aron è, mutatis mutandis, un po’ come leggere Montaigne: ciò che perde il cuore in fatto di illusioni viene compensato dalla lucidità di uno sguardo educato da quell’«umanesimo virile» e pessimista che, per Aron, assieme al cristianesimo, era alle origini dello spirito europeo.

Di Dino Cofrancesco

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