Il Potere, la Libertà, l’Uguaglianza (Il Sannio)

di Sabatino Truppi, del 12 Ottobre 2012

Da Il Sannio – 11 ottobre 2012
«Narra Montaigne che i tre cannibali provenienti dal Nuovo Mondo erano rimasti impressionati dal fatto che, nella civile società francese, c’erano uomini pieni fino alla gola dì ogni sorta di agi e che altri stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà». È questo l’incipit dell’ultimo libro dì Luciano Pellicani, in cui il noto studioso che ha insegnato per trent’ anni Sociologia politica all’Università LUISS “Guido Carli” sì è interrogato sul rapporto difficile che la modernità, e il suo valore principale la libertà, hanno da sempre avuto con un altro valore non meno importante nella storia dell’Occidente come l’eguaglianza (“Il potere, la libertà e l’eguaglianza“, Rubbettino 2012, pp. 88, € 8,00).

Non sembrano però essere conclusioni ottimistiche quelle a cui è giunto Pellicani. Della ben nota triade, proclamata dalla rivoluzione francese – “Liberté, Egalité, Fraternité” – l’uguaglianza e la solidarietà sembrano essere stati i valori di più difficile realizzazione “sostanziale” nella storia dell’Occidente. Sul punto, l’autore non manca di sottolineare il contributo “storico” arrecato dalla socialdemocrazia alla causa dell’universalizzazione dei diritti civili, politici e sociali, attraverso un programma liberale e riformista, che è riuscito, diversamente dal liberticida “socialismo reale”, a diminuire le ingiustizie e a «incrementare l’eguaglianza sostanziale senza distruggere la libertà individuale».

Compromesso, questo, tra la libertà e la giustizia, tra lo Stato e il mercato, che avrebbe portato alla nascita di un sistema che «protegge le libertà individuali, ma che, nello stesso tempo, assume su di se il compito di correggere l’iniqua distribuzione delle chances di vita» attraverso «la creazione di istituzioni ideate per combattere la miseria, la malattia, l’ignoranza, lo squallore e l’ozio». Tuttavia, conclude amaro Pellicani, nonostante il contributo fondamentale del compromesso socialdemocratico nel favorire una maggiore giustizia sociale, «le grandi diseguaglianze (di potere, di ricchezza, di prestigio) non sono affatto sparite». Anzi, sembrano essere qualcosa d’ineluttabile, dovute alla «struttura delle società complesse, basate sulla divisione del lavoro, che è inevitabilmente gerarchica», il che comporta che ci sono naturalmente «funzioni direttive ed esecutive, professioni di grande prestigio e mestieri servili, attività gratificanti e occupazioni alienanti».

Ed è questa, osserva l’autore con un tono pessimistico che sembra lasciare poco spazio alle speranze, «la contraddizione più manifesta di una civiltà il cui ideale è la fruizione universale del diritto alt’ autorealizzazione». Ora con il pessimismo delle conclusione cui sembra essere pervenuto l’autore si può non convenire pienamente.

Certamente Pellicani coglie nel segno quando afferma che il problema delle diseguaglianze e mai periodo storico è apparso migliore di questo per affermarlo – non è stato completamente risolto. Tuttavia, e non è un particolare secondario, bisogna anche dire che nel corso dell’ultimo secolo e mezzo le ingiustizie, la povertà, le diseguaglianze sono notevolmente diminuite. Ed è stato possibile, come il libro non manca di illustrare, proprio grazie alla “tosatura” socialdemocratica di quella prodigiosa macchina produttrice dì ricchezza che è la “pecora” capitalistica. Il che induce a pensare che il termometro delle diseguaglianze è mosso, ed è sempre stato mosso, da un fattore eminentemente politico. Ecco: se c’è qualcosa che deve indurre al pessimismo, e deve preoccupare per le sorti della lotta alle diseguaglianze, non è tanto la loro ineluttabile persistenza oggettivamente ineliminabile salvo voler pagare il prezzo di un deciso ridimensionamento delle libertà – ma la marginalizzazione politica, nonché culturale, di quelle idee che si prodigavano per una loro diminuzione.

La riduzione delle diseguaglianze, ricordava infatti Hannah Arendt, è «il risultato dell’organizzazione umana nella misura in cui si fa guidare dal principio di giustizia».

Negli ultimi decenni, invece, i valori della socialdemocrazia sono stati sempre più ridimensionati dal liberismo spinto di quelli che George Soros ha chiamato i “fondamentalisti del mercato”, fautori di un sistema basato su un culto “totemico” del libero scambio, ostile a qualsivoglia regolamentazione e che poco concede ai diritti e ai bisogni dei più deboli. Non a caso Hayek, in perfetta sintonia con questa visione, riteneva che l’espressione giustizia sociale andasse debitamente cancellata dal vocabolario politico in quanto residuo di una mentalità tribale.

Ed è proprio l’eclissi del messaggio socialdemocratico accompagnato dal persistere di certe politiche – nonostante la popperiana falsificazione che hanno avuto con l’attuale crisi economica – a rappresentare un campanello d’allarme, considerato che la strada su cui vertono porterà ad un ulteriore aumento, e non a una diminuzione, delle diseguaglianze, come empiricamente confermato dalla storia e dai dati di questi ultimi decenni.

Tutto questo non porta comunque a condividere in toto la sfiducia categorica che contraddistingue le conclusioni di Pellicani. Certamente, le diseguaglianze restano ineliminabili, ma le idee per ricominciare a ridurle ci sono. Basterebbe tornare a praticarle. Ed è questo, seppur piccolo, un motivo per essere cautamente ottimisti.

Di Sabatino Truppi

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