Papà Cervi e i suoi sette figli (EuropaQuotidiano.it)

di Giovanni Cocconi, del 27 Gennaio 2014

da EuropaQuotidiano.it del 27 gennaio

«Se mi chiedessero in quale tempo vorrei rinascere, sceglierei sempre questo» ha twittato papà Cervi il 16 dicembre 2013. Nella sua camera da letto, lì al primo piano della grande cascina ai Campi Rossi di Gattatico, nella bassa tra Reggio Emilia e Parma, ci sono ancora il crocifisso e la foto di Togliatti che si guardano. Fuori, il pellegrinaggio è un po’ cambiato. «Premere 1 per il Museo Cervi» dice la voce femminile della segreteria telefonica. Negli anni Cinquanta e Sessanta questo era un luogo sacro. Si veniva ad abbracciare il vecchio Alcide, il “Cide”, sopravvissuto ai suoi sette figli, a toccarlo, stringergli la mano, chiedergli consigli e intercessioni. Molti, uscendo dalla casa, si facevano il segno della croce. «Nonno, siete come padre Pio» gli diceva scherzando la nipote Luciana. Italo Calvino rimase folgorato dall’incontro con papà Cervi e tornò più volte: i suoi articoli prepararono il terreno alla costruzione dello mito.
Montato e smontato più volte, il mito dei sette fratelli Cervi resta uno dei più forti della Resistenza. Eppure ancora oggi, a settant’anni dall’eccidio, non è facile distinguere la storia dalla leggenda. «La cosa notevole è che tutta la costruzione e decostruzione di questo mito è stata condotta dai comunisti e dai loro eredi, come è stato il caso di Otello Montanari, che da presidente dellistituto Cervi nel 1990 apre la campagna del chi sa parli» racconta Alessandro Casellato, storico all’università Ca’ Foscari di Venezia, e condirettore dell’Istituto storico della Resistenza di Treviso. Per Einaudi sta scrivendo una monografia sulla storia dei Cervi, provando a staccare gli strati di intonaco che l’hanno ricoperta. Il primo è quello lasciato dal libro I miei sette figli, uscito nel 1955 a firma Alcide Cervi: l’autobiografia di un vecchio contadino che celebrava i suoi sette figli uccisi. In realtà a scriverlo era stato Renato Nicolai, giornalista dell’Unità, su incarico del Pci. Come ha raccontato Sandro Curzi nel 2009 il racconto fu il risultato di un lavoro collettivo del gruppo propaganda del Partito comunista. Un lavoro a tavolino. Uscito per Editori Riuniti, I miei sette figli diventò best-seller da un milione di copie. Il libro esce un anno dopo la visita di Palmiro Togliatti a casa Cervi. Fu il segretario generale del Pci a chiedere che la vicenda della famiglia Cervi fosse raccontata come una storia esemplare, l’occasione di una pedagogia di massa. Come spiega Luciano Casali introducendo l’edizione Einaudi del 2010 «l’occasione per ribadire che le radici più profonde della società reggiana, emiliana, italiana erano radici contadine e non operaie». I fratelli Cervi rappresentavano il «modello del migliore riformismo italianouna sintesi (politica) tra cattolici e comunisti». Nell’edizione del 1971, poi, una serie di tagli al testo con il bisturi ne cambiano di nuovo il significato. E ancora un mistero chi li abbia pensati e autorizzati. Scompaiono le parole “comunista”, “Unione Sovietica”, “l’Unità”. La storia dei Cervi diventa una storia “democratica”. In realtà, però, il mito dei Cervi nasce prima del libro “apocrifo” di Alcide. Il 17 gennaio 1954, il presidente della repubblica Luigi Einaudi riceve il vecchio contadino al Quirinale. «Un’occasione dallo straordinario valore simbolico: quel giorno il popolo entrò a palazzo» spiega Casellato. «Il mito dei Cervi risponde al bisogno che aveva la Repubblica italiana, nata fragile da una guerra persa e dalle ceneri di un regime totalitario, di presentare storie con radici popolari e contadine, rappresentative della maggioranza degli italiani. Un richiamo nazional-popolare che prometteva l’elevazione sociale e culturale delle classi subalterne come scritto nella Costituzione: in fondo è la prima volta che un contadino prende la parola in pubblico e, dall’anno successivo, la prima volta che la sua storia entra, con le sue parole, in un libro scritto». Alcide è l’unico maschio adulto della famiglia sfuggito alla strage fascista. E l’uomo che ha vissuto due volte, il sopravvissuto, colui che è condannato a ricordare e raccontare. «Una straordinaria figura di mediazione tra l’Aldilà e l’al di qua, tra il presente e il passato». Tutta la famiglia Cervi era cattolica, compreso Aldo, il leader politico dei sette fratelli, il Gian Maria Volontè del celebre film di Gianni Puccini: prima di subire una vera e propria conversione al comunismo in carcere, era stato un leader dell’Azione cattolica, un animatore delle attività della parrocchia. Papà Alcide era iscritto al Partito Popolare italiano e anche alla Confraternita del Santissimo sacramento: un giorno fu delegato dal parroco a battezzare un bambino in fin di vita. La moglie Genoeffa Cocconi aveva trasmesso l’educazione cattolica ai figli. In un bel libro appena uscito, Papa Cervi e i suoi sette figli (Rubbettino), il sociologo Marco Cerri nota che nella famosa foto della fine degli anni Trenta, l’unica con i sette fratelli, «Alcide appare in una posa ieratica, solenne; è insieme a Genoeffa al centro della scena e i figli e le figlie fanno da corona ai genitori». Nelle fotografie successive perderà quel carattere solenne per assumere espressioni dolenti, umane, affettuose. Un vecchio contadino sopravvissuto al dolore più grande: un uomo magro, il volto scavato, i grandi baffi, le orecchie e il naso fuori taglia. Calvino lo descrive come un «ometto basso e solido e nodoso». La fotografia di papà Cervi compare oggi nel profilo aperto 1’8 settembre 2013 dall’istituto Alcide Cervi su Twitter con il suo nome e le sue frasi più famose. «Il corpo di Alcide scrive Cerri prima di essere un’immagine e un’icona della Resistenza e del mondo contadino, è stato un corpo parlato, descritto, analizzato». La famiglia Cervi aveva fama di una certa originalità fin da quando aveva deciso di trasformare la cultura contadina con tecnologie fuori dalla tradizione. Per esempio decidendo di spianare il terreno così da permettere un’irrigazione migliore. Ancora Casellato: «La fama dei Cervi come di “irregolari” e con “tendenze anarcoidi” tali da spiegare una diffidenza del Pci reggiano nei loro confronti viene riesumata politicamente, però, alla fine degli anni 70 e cioè nel momento in cui il Pci stava conducendo una battaglia contro il terrorismo e quella della Resistenza torna ad essere una memoria contesa». Fino ai primi anni Novanta l’espressione “guerra civile” non sarà compatibile con la dimensione eroica della Resistenza che inizia a essere rivisitata con la fine del Pci, a partire dal famoso “Chi sa parli” del 1990 di Otello Montanari, partigiano e dirigente comunista, allora presidente dell’Istituto Cervi. E l’ultimo strato di intonaco posato sulla vicenda della famiglia su cui inizia ad appuntarsi anche l’interesse della storiografia di destra, secondo la quale la morte dei Cervi sarebbe attribuibile a un piano preordinato del Pci clandestino reggiano per disfarsi della presenza ingombrante dei sette fratelli. E’ possibile che i Cervi siano stati traditi? «Parliamo di un periodo in cui stanno cambiando rapidamente gli equilibri politici perche’ un regime si sfascia, e i Cervi diventano un punto si riferimento per una leadership conquistata sul territorio. Basti pensare alla famosa pastasciutta offerta il 25 aprile del ’43. I Cervi entrano in conflitto con i dirigenti del Pci i quali hanno lautorità che deriva loro dal partito, sono gli emissari di un potere lontano che discende in ultima istanza dal paese dove la rivoluzione ha vinto e si è fatta stato, il mito dell’Unione Sovietica che ha vinto i tedeschi a Stalingrado, che ha un capo che sa comandare. Nel caso dei Cervi possibili frizioni con il Pci locale non sono dimostrate nonostante molta pubblicistica le ipotizzi. Esemplare di quel clima è la vicenda di Facio, Dante Castellucci, che era stato compagno di Aldo Cervi, condannato dai partigiani e ucciso dal fuoco amico nellestate del 44, anche se questa verità rimane per molto tempo negata». In ogni caso «non tutta la Resistenza era guerra civile: anche il famoso libro di Claudio Pavone al suo interno parla di tre guerre: di Liberazione, guerra di classe, e guerra  civile».

di Giovanni Cocconi

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