Un libro sul cinema giudiziario italiano (Cinemaitaliano.info)

del 27 Marzo 2013

Da Cinemaitaliano.info del 26 marzo 2013

Intervista a Guido Vitiello di Carlo Griseri
Come nasce l’ispirazione per questo volume?
Nasce, anzitutto, dalla convergenza di due passioni, una dilettevole (il cinema), l’altra piuttosto dolorosa (la giustizia). Ma nasce ancor più dalla rilevazione di un’assenza: l’ultimo tentativo di affrontare sistematicamente il cinema giudiziario italiano, Il giudice sullo schermo di Vincenzo Tomeo, risaliva ormai al 1973, esattamente quarant’anni fa.
Nasce, infine, dalla constatazione di un piccolo paradosso: quanto più i giudici e la giustizia diventavano centrali nella vita pubblica italiana, tanto più scomparivano dal grande schermo, e a distanza di vent’anni ancora nessuno ha raccontato per il cinema l’atto di nascita della Seconda repubblica, ossia l’inchiesta Mani Pulite. Proprio poche settimane fa sono cominciate le riprese di 1992, la serie televisiva prodotta da Sky Cinema che si propone di ripercorrere il nostro annus terribilis. Sarà interessante vedere come. A tutt’oggi, l’unica «narrazione popolare» di quella stagione sono gli spettacolini itineranti di Marco Travaglio, il che è tutto dire.

Perché in Italia questo genere non ha mai “attecchito”?
A dire il vero, il genere del courtroom drama americano non ha attecchito in quasi tutta Europa, per molteplici ragioni che vanno dalla scarsa «spettacolarità» del rito processuale nei paesi di civil law alla debolezza, o inesistenza, di una vera industria dei generi.
In Italia, però, mi pare di vedere una ragione aggiuntiva, che è tutta culturale, e che ha a che fare con la storica debolezza della civicness e con una certa marginalità della sfera legale nelle nostre forme di convivenza. Una sottile diffidenza verso il mondo della legge che ha trovato piena espressione nel contesto della commedia, l’unico genere (anche se parlare di genere è improprio) che abbia costantemente rimeditato temi e motivi giudiziari, da “Un giorno in pretura” a “Tutti dentro”. Per mostrare, il più delle volte, che il vero luogo della composizione dei conflitti non è il tribunale, scenario senza solennità o con una solennità tutta caricaturale.

Lei cita Damiano Damiani come l’unico autore che con successo ha voluto addentrarsi in tale genere: come mai?
Damiani è stato un caso piuttosto isolato di regista con una vera «ossessione della giustizia», avrebbe detto Sciascia. Si può dire lo stesso di André Cayatte in Francia, che non per caso veniva da studi giuridici. Più che dar forma a un courtroom drama o a un legal thriller italiano, però, il grande regista appena scomparso ha attraversato molti generi popolandoli dei suoi rovelli giudiziari, e ha usato il film alla stregua di uno «strumento indiziario», come ha mostrato Anton Giulio Mancino nel suo saggio su Damiani compreso nel volume. L’altro grande nome del cinema giudiziario italiano è Pietro Germi, fin dall’esordio de “Il testimone”. Ma il suo film più importante, in questo senso, è In nome della legge, che non per caso ho scelto come titolo del libro.

Nel cinema più recente riscontra una tendenza diversa in tal senso? I registi italiani di oggi come si pongono verso il courtroom film?
La giustizia, nel cinema italiano, è ancora piuttosto latitante. Capita, certo, di imbattersi in biopic televisivi più o meno agiografici sui magistrati antimafia, ma capolavori giudiziari come “Detenuto in attesa di giudizio” o “In nome del popolo italiano” non si vedono da lungo tempo. L’unico film recente che, comunque si giudichino i suoi limiti ideologici, ha affrontato il nodo con qualche ambizione è “Il Caimano” di Moretti. Per il resto, il magistrato al cinema (e se è per questo anche in molta letteratura italiana dell’ultima stagione) è il più delle volte un convitato di pietra: o ne fanno una statua, un monumento equestre, o lo lasciano fuori campo, invisibile e impassibile.

Come giudica la recente “moda” del nostro cinema, di finzione e documentaria, di approcciarsi al mondo del carcere e dei carcerati?
In questo campo, le mie preoccupazioni civili eclissano del tutto quelle cinematografiche: tutto ciò che porti a illuminare la situazione barbarica e intollerabile delle carceri italiane è benedetto. Meglio ancora, poi, se si tratta di film che riescono a esplorare il carcere non tanto come un «altro mondo» o una specie di monastero di clausura, ma come punto di capitolazione di un sistema giudiziario che è in decomposizione fin dalla testa. Un esempio eccellente, in questo senso, è il documentario “Just(ice) in Italy” di Valentina Ascione e Simone Sapienza. In fondo, quello sul cinema carcerario è il capitolo mancante di In nome della legge, ma non si tratta di un peccato di omissione: due temi che sono indissolubilmente legati nella realtà non è detto che lo siano altrettanto nel cinema (e anche su questo si potrebbe riflettere). Ma mi ha dato un’ottima idea per il prossimo libro. 

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