Vito Teti: la criminalità non è separabile dalla storia politica nazionale (Il Giornale)

di Eleonora Aragona, del 21 Marzo 2016

Da Il Giornale del 20 marzo

La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme . Questa frase di Guido Piovene sembra riassumere la lunga chiacchierata su Calabria e calabresi con Vito Teti. L’antropologo calabrese, classe 1950, narra una terra franata, stremata e irrequieta. Una amalgama di opposti che Teti racconta nei suoi scritti alternando storia, riflessioni e vita vissuta. Lui stesso sostiene che i suoi saggi sono un’autobiografia della Calabria mischiata alla sua storia personale. In “Terra inquieta” (Rubbettino, pp. 486, Euro 15,30), si ritrovano tutte queste voci della Calabria e della storia di Teti.
Il suo è un racconto vivido di una realtà difficile da interpretare, simile al suo paesaggio naturale frastagliato e mutevole. L’emigrazione che ha svuotato le strade del paesino in cui è nato e cresciuto, la decisione di partire per Roma per studiare e per trovare un altrove in cui realizzarsi. E la scelta poi che arriva piano, naturalmente, di tornare in quel mondo da cui pensava di voler fuggire per fare il possibile per la propria terra. Sono i punti salienti di una lunga chiacchierata che abbiamo fatto con Teti per cercare di capire qualcosa di più di una regione che continua a suscitare polemiche e interesse.
La Calabria dai mille volti, dall’animo inquieto è uno di quei luoghi che ancora cercano il loro posto nel mondo e che spesso viene fraintesa. Cerchiamo quindi di mettere un po’ d’ordine.
I calabresi sono vittimisti o hanno ragione a considerarsi dei perseguitati dall’ingiustizia?
«C’è molto di vero, credo che i calabresi facciano male ad essere suscettibili quando gli vengono rivolte queste accuse. La Calabria ha goduto di una serie di sguardi negativi, ostili, pregiudiziali, spesso gratuiti. Questo è avvenuto sin da prima dell’unificazione nazionale. Anche da Napoli durante il periodo borbonico la Calabria veniva vista come un luogo di diversità, di alterità. E tuttavia, come scrivo in Maledetto Sud, su questo aspetto sarei crociano».
Cosa intende?
«Nel senso che quando siamo oggetto di un’immagine negativa, di uno stereotipo che pensiamo ingiusto dobbiamo chiederci innanzitutto se non facciamo anche noi qualcosa per meritarci quell’immagine. Se non è il caso di mostrare con i fatti che quei pregiudizi sono privi di fondamento. Dei guai che succedono in Calabria sono responsabili i calabresi stessi. Non si può dare la colpa sempre ai giornali del Nord, ai politici estremisti o ad altri, è un giochino questo che va in qualche modo scoperto e smascherato, perché altrimenti si finisce con il cadere in una sorta di auto-assoluzione generica. Se affermassimo questo tipo di concezione saremmo veramente maledetti nel senso che non saremmo più in grado di cambiare le cose».
Se invece diciamo che la responsabilità è anche nostra?
«Allora le cose cambiano, vuol dire che siamo in grado di mutare. La realtà non è il frutto di un qualche progetto di un’entità malefica, è frutto di storia, di vicende politiche complesse, ma è inevitabile. I calabresi oggi sono chiamati ad interrogarsi sulle proprie responsabilità, devono assumersi delle responsabilità. Il dare la colpa ad altri rientra in una strategia della lamentela. La lamentela diventa un alibi che finisce col coprire gruppi dirigenti locali e per non farci fare i conti fino in fondo con i nostri limiti».
Questa lamentazione caratteristica dei calabresi quanto è stata definita dal periodo delle catastrofi di cui parla in Terra inquieta?
«Indubbiamente le catastrofi, i terremoti, il paesaggio che viene sconvolto continuamente, tutto questo ha generato un sentimento di precarietà, di incompiutezza, di dolore. Forse anche di indifferenza e apatia. Un’apatia che dopo un terremoto è chiaramente legata a quella condizione catastrofica, ma che poi diventa un problema. Lo diventa quando entra a far parte della cultura e della mentalità. SI trasforma quasi in una specie di compiacimento. Quello che contrasto è la retorica della lamentela, il fare della catastrofe un pretesto, perché è allora che l’afflizione diventa lamentela infinita, una strategia del non fare. Bisognerebbe uscire da questa trappola che la natura e la storia hanno teso ai calabresi».
Come?
«Prendendo atto che qualcosa non è andato peril verso giusto, ma che una lamentela come soluzione dei problemi non funziona. E non facendo come hanno fatto i gruppi politici e gli amministratori, e come ben ha raccontato Corrado Alvaro, strumentalizzando eventi naturali traumatici e i bisogni delle persone».
Professore, i calabresi sono criminali o li raccontano così?
«Credo che questo tipo di generalizzazioni siano nefaste e che chi le utilizza se ne assume la piena responsabilità. E soprattutto che sia qualcuno che non conosce bene la Calabria. D’altra parte questa criminalizzazione che generalizza e annulla tutti nella categoria del calabrese=criminale, mafioso e brigante non può essere confutato nell’eccesso opposto. Non si può infatti affermare che la criminalità non esista. In questo modo infatti faremmo il gioco di chi ci criminalizza».
Quindi?
«Dobbiamo essere noi stessi a dire che c’è la ‘ndrangheta, ma anche a dire che i calabresi non sono tutti criminali, non sono tutti ‘ndranghetisti. Alle accuse di criminalizzazione e ai racconti distorti dobbiamo rispondere dicendo noi per primi che ci sono interi paesi governati dalla ‘ndrangheta, che ci sono stati centinai di comuni sciolti per ‘ndrangheta – al di là dell’efficacia di questo strumento legislativo – e ci sono state guerre di mafie con centinaia e centinaia di morti, che l’economia viene oppressa dalla presenza ‘ndranghetista, che vengono incendiate macchine, fatti attentati ad imprenditori e amministratori. Tutto questo non può essere negato. Solo così siamo più credibili, abbiamo più forza e assumendolo noi stessi siamo in grado di contrastare una sorta di razzismo strisciante che, certo, serpeggia in quelli che vogliono ridurre la Calabria a un problema criminale. La Calabria non è un problema criminale, ma la criminalità è il grande problema della Calabria».
Non solo della Calabria…
«Assolutamente sì. C’è però un elemento da considerare: nei luoghi dove c’è la criminalità ‘ndranghetista permane un riferimento forte con la terra di origine. Questo non è un dato da sottovalutare. Bisogna cercare di capire che la criminalità non è separabile dalla storia politica nazionale e internazionale. Mi riferisco a tutti i fenomeni di corruzione e mala-politica emersi. Una volta presa coscienza del problema però credo che esso vada capito e affrontato a diversi livelli: culturale, pedagogico, economico e politico. Dopodiché chi vuole continuare il giochino del calabrese criminale è libero di farlo».
Lei sostiene che i calabresi in questo discorso della criminalizzazione siano vittima di un paradosso. Quale?
«Sono cornuti e mazziati. Vivono con dolore una terra devastata, la condizione di abitare in paesi e luoghi in cui spadroneggia la criminalità. Poi vanno all’estero e vengono additati come criminali. Non dimenticherò mai quando, partecipando ad un convegno di un’associazione internazionale di antropologia, i primi tempi i colleghi incontrandomi, tra il divertito e l’irriverente, mi chiedevano: Come sta la ‘ndrangheta? Per loro non c’era distinzione, nonostante io faticassi per sopravvivere in un contesto ‘ndranghetista e dovessi mantenere la retta via tra mille difficoltà. Per loro eravamo tutti uguali. È per questo che forse alla ‘ndrangheta andrebbe fatto anche un processo per danno di immagine».

di Eleonora Aragona

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