La solitudine di Sciascia (La Repubblica (Ed. Palermo))

di Salvatore Ferlita, del 1 Ottobre 2012

Da La Repubblica (Ed. Palermo) – 30 settembre 2012
L’epistolario dello scrittore con il collega calabrese Mario La Cava:l’isolamento, la voglia di fuga e la malinconia per le difficoltà del suo lavoro
“Caro La Cava, per scriverti, ho aspettato che uscisse il mio libretto di poesie, che oggi a parte ti invio. Ti ringrazio tanto della cartolina che mi hai inviato da Siracusa e della nota alle “Favole” apparsa su “Il Piccolissimo”. Non so se ti è mai capitato di vedere qualche numero della rassegna “Galleria”, che io dirigevo per l’editore Sciascia. Questa rassegna, per mancanza di linfa finanziaria, subì lo scorso anno un arresto: e già ci rassegnavamo a considerarla morta, quando non so da che Commissione pervenne all’editore un sussidio tale che ne assicura la continuità. Al più presto quindi uscirà il primo numero della nuova serie. La rivista si pubblicherà in fascicoli di 64 pagine, e si avvale di collaboratori qualificati. Vorrei perciò avere qualcosa di tuo: cinque o sei pagine dei “Caratteri” inediti, o un lungo racconto; quello che vorrai, insomma. L’importante è che il tuo nome non mi manchi. Spero mi invierai presto quanto ti chiedo; e te ne sarò gratissimo.
Un affettuoso saluto e un augurio di buon lavoro. tuo Leonardo Sciascia.

Incipit del libro “Lettere dal centro del mondo. 1951-1988”, di Leonardo Sciascia e Mario La Cava, Rubbettino editore, 492 pagine, 17 euro, a cura di Milly Curcio e Luigi Tassoni

Ogni qual volta si mette mano a un epistolario, si avverte una strana sensazione: la relazione, infatti, che si stabilisce tra chi scrive, la persona alla quale questi si rivolge e chi effettivamente legge, si rivela come una sorta di peccaminoso triangolo. In cui il lettore si trova ad affacciarsi dal terzo vertice, per sbirciare come dal buco della serratura in casa altrui, nella mente e nel cuore di altri. Si perpetra insomma una violazione di intimità segrete e legittime, come nel caso della corrispondenza fra Leonardo Sciascia e Mario La Cava, che da poco ha visto la luce per i tipi di Rubbettino: “Lettere dal centro del mondo 1951-1988 (492 pagine, 17 euro, a cura di Milly Curcio e Luigi Tassoni). Titolo quanto mai azzeccato, per la sua forte ambivalenza: un centro che è il cuore pulsante dell’ invenzione, il nucleo della memoria e dell’ immaginario; che però è divaricato, per definizione, rispetto al centro strategico, laddove si concentrano i poteri editoriali, mediatici. Una sorta di antifrasi, dunque, significativamente polemica, quasi un ribaltamento della solita dinamica, ossia quello tra il centro e appunto la periferia. Da dove si affacciano Sciascia (Racalmuto) e La Cava (Bovalino, Reggio Calabria): il primo, timido esordiente, fresco delle “Favole della dittatura” (1950), pubblicate grazie all’ intercessione del poeta dialettale romano Mario Dell’ Arco; il secondo, autore di un libro importante, “Caratteri”, uscito nel 1939 presso Le Monnier e poi ristampato da Einaudi nel 1953, da Sciascia ritenuto modello di una prosa secca, scorciata e affabile. Si diceva della periferia: lo scrittore di Racalmuto, rispetto al decentramento cui è condannato chi si trova a vivere ai margini, nutre sentimenti contrapposti. Una sorta di pendolarismo tra la felicità legata agli effetti benefici dell’ isolamento, e la frustrazione dovuta alla lontananza. Si legge nella lettera del 2 agosto 1951: «Caro La Cava, mi trovo da circa un mese in una campagna molto distante dal paese; e la possibilità di ricevere la posta si presenta a lunghi sbalzi di giorni. […] Ma in fondo vivere così mi piace: leggere un libro al giorno e scrivere un articolo al mese; e quando posso, una piccola scappata oltre lo Stretto». Una sorta di elogio dell’ idillio, che però, poco dopo tempo, viene rovesciato nel suo contrario, come si evince dalla lettera spedita da Sciascia il 29 dicembre dello stesso anno: «Sono convinto dello svantaggio di questa nostra vita da confinati». L’ anno successivo (27 ottobre 1952), il futuro autore di “Morte dell’inquisitore” rincara fortemente la dose: «Certo, quel che ci vuole è un’evasione da questi nostri tristissimi luoghi – per le cose dell’ intelligenza tristissimi; un campo di annientamento; un deserto. Spero che tu riesca a liberartene. Anch’io sono sorretto da questa speranza, benché le mie condizioni (insegnamento e famiglia) siano molto diverse, e in peggio, delle tue». Per ammettere con rassegnazione, il 29 marzo del 1954: «Viviamo così lontani dal centro che, mi son convinto, è meglio tenere tutti amici – anche se amici per modo di dire. Purtroppo, tra i nostri amici ci sono molte canaglie». A volte, ad avere la meglio è la rassegnazione: «Hai ragione tu, forse resteremo ad ammuffire tu a Bovalino, io a Racalmuto, fino alla consumazione del tempo» (5 agosto 1954).
Ma Sciascia agogna ad ogni modo di andar via dall’ Isola, anche se immediatamente viene assalito dai sensi di colpa: «Carissimo Mario – scrive il 2 ottobre 1957 – a quanto pare, mi trasferiscono a Roma. Inutile dirti che un tale provvedimento, da me sollecitato, mi mette in una condizione penosa. Nonostante tutto, il dover lasciare la Sicilia mi travaglia di rimorsi; mi par di commettere una specie di diserzione di fronte al nemico. Ma se oggi rinunciassi ad andarmene, per sempre mi precluderei la possibilità della fuga». Si diceva all’ inizio della profanazione quasi che si perpetra, compulsando una corrispondenza. Nella fattispecie, dalle epistole di Sciascia e La Cava vengono fuori i retroscena privati, le difficoltà, il senso di frustrazione, le tribolazioni famigliari. Insomma, da questo carteggio è possibile recuperare la sagoma segreta di Sciascia: il freddo, la solitudine, gli stenti, i malesseri. «Non guadagno un soldo – scrive il romanziere e saggista racalmutese nella lettera del 14 dicembre 1955 – per la radio non ho fatto più niente, i giornali pagano con mille o duemila lire. E avrei bisogno di soldi per muovermi, la mia vera malattia è questa pena di vivere così».
L’anno prima, in vista di un viaggio da intraprendere, Sciascia confida all’amico: «Partirò, tra l’altro, con quattrini limitatissimi, tanto che non so se ce la farò a giungere fino a Torino. Ti chiederò anzi consiglio su alberghi e pensioni dove si possa spender poco». Sovente lo scrittore siciliano si abbandona a confessioni che riguardano il suo male oscuro, una sorta di incurabile melanconia: «Come stai? – chiede all’ amico il 16 aprile 1955 – Io, al solito, male». Gli anni passano, ma la situazione interiore non cambia: «Come stai? Io male. Come si diceva una volta: nel corpo e nello spirito. La coscienza della inutilità dello scrivere in me ha quasi raggiunto quella della inutilità del vivere. Ma lasciamo perdere: e tanto più che forse continueremo a scrivere» (8 aprile 1967). Non poche volte, Sciascia, che in quegli anni fa decollare la rivista “Galleria” e la collana dei “Quaderni” legati alla rivista, apre una finestra della sua officina creativa: accennando alla difficoltà della scrittura, a una storia che non imbocca il verso giusto, all’ affanno per il reperimento delle fonti, ai rapporti difficili con gli editori, spesso superficiali e indifferenti.

Di Salvatore Ferlita

Altre Rassegne