“Il romanzo del casale” di Sapia. Il Gattopardo calabrese (Il Quotidiano del Sud)

di Antonio Cavallaro, del 10 Aprile 2020

«E se “Il romanzo del casale” fosse il nuovo Gattopardo?», si chiedeva Alessandro Zaccuri nel recensire il romanzo di Giovanni Sapia su «Avvenire» del 12 settembre 2017. Certo, ai più il l’interrogativo di Zaccuri potrebbe apparire iperbolico e forse provocatorio, eppure scorrendo le pagine del «Casale» è difficile non rinvenire quello stile sereno, quell’attenzione al vero, quella caratterizzazione della psicologia dei personaggi, quella nostalgia per un mondo passato che, pure ha tanto da dire al presente, che impregna l’opera di Tomasi di Lampedusa, pur senza alcuna devota genuflessione, come osserva Marco Beck, nella prefazione alla nuova edizione del «Romanzo del casale» che Rubbettino ha lanciato da poco in libreria nella prestigiosa collana “La nave dei pini”.

Insieme a un pugno di altri romanzi, tra i quali è impossibile non citare «Oga Magoga», l’Horcynus Orca calabrese, il «Casale» è una di quelle opere che meritano a buon diritto un posto d’onore nel canone della letteratura calabrese, eppure, come osserva Marco Beck nell’introduzione, salvo alcune lodevoli eccezioni ‒  come quella di Pasquale Tuscano che ne fece una recensione su «Critica letteraria» o le recensioni di Pietro De Leo e di Dante Maffia su «Gazzetta del Sud» e «Il Quotidiano della Calabria», o quella di Alessandro Zaccuri che citavamo in apertura ‒ l’opera di Sapia è rimasta ai più sconosciuta, sommersa da quella congiura del silenzio e dell’oblio di cui i calabresi sono spesso maestri, specie quando a farne le spese sono scrittori e intellettuali.

Eppure, questa di Rubbettino che ‒ come scrive sempre Beck ‒ ha il sapore di una sfida mirante al recupero e alla valorizzazione, è oramai la terza edizione del romanzo e fa seguito a quella di Tullio Pironti che, non fosse altro che per motivi geografici, lo aveva sottratto a una circolazione locale.

Proviamo dunque a dare il “La” a una tale quanto necessaria opera di diffusione e conoscenza di questo raffinato autore, proponendo per i lettori del «Quotidiano del Sud» un ampio stralcio del romanzo, selezionato, anche per il tema, per la giornata odierna e concludendo questa breve introduzione con due domande che Zaccuri si poneva nella citata recensione: «Possibile che oggi si scriva un libro del genere e che questo libro non diventi un caso letterario? Possibile che un libro come questo debba passare inosservato?»

Barabba
Da «Il romanzo del casale» di Giovanni Sapia

Si avvicinava la Pasqua, una delle occasioni rituali per la discesa dei casalini al paese, ad accompagnare la processione dei sacri misteri, col vestito nuovo, le scarpe nuove quelli che potevano, e comunque tutti addobbati alla meglio dopo l’uggia invernale, con un respiro corale di resurrezione, che fondeva la Pasqua e la primavera.

Quell’anno il venerdì santo si annunziava di particolare solennità, perché la congregazione titolare del rito aveva rinnovato in gran parte il corredo delle statue, abbandonando le vecchie, di nobile scuola napoletana, ma deteriorate dagli anni, in uno spiazzo adiacente alla chiesa, con tutto diletto dei ragazzi, che, indossando quelle maschere straordinarie, avevano dato un colore nuovissimo alla festa di carnevale, ma con rammarico e mugugno degli anziani, tanto che il caso era assurto a problema cittadino e tutti erano curiosi delle novità.

Ma c’era del nuovo anche nella famiglia di Barabba, perché la vecchia madre, in un momento di estremo sconforto per l’assenza del figlio e la grave malattia della prima nipote, che aveva fatto temere della sua vita, aveva promesso al Signore, baciando la terra in ginocchio, che in cambio del ritorno dell’uno e della salute dell’altra tutta la famiglia avrebbe seguito i misteri e Barabba stesso avrebbe indossato le insegne della penitenza. Voti di quel genere sulla pelle degli altri erano consueti all’ignoranza popolare e dovevano di necessità essere assolti, pena la punizione divina. Barabba prima ascoltò con uno sberleffo, poi cominciò a titubare quando la madre gli disse:

«Vedi, il Signore mi ha sentita e l’ha rimessa in piedi; ora, se muore, la colpa è tua».

A sentirselo ripetere, ebbe paura davvero e, se non l’espresse attraverso gli occhi, che continuarono a essere spenti ed estranei, di fatto la confessò acquistando lui stesso in paese la corda per il cilicio, corda grossa di canapa, di quella per cavezza di animali, e raccogliendo, per la corona, l’asparago più vecchio e pungente sulla costa vicina, dove la pianta cresceva quasi in selva e già emetteva dalla radice i polloni teneri e saporiti della primavera.

Il casale c’era tutto, a vedere il penitente. Era una Pasqua precoce e fredda e la neve e la pioggia cadute di recente avevano chiazzato di fanghiglia il selciato delle vie, ma il concorso

era grande e intensa l’atmosfera di raccolta tristezza che pare stabilirsi per miracolo di natura in quel particolare venerdì. La processione aveva inizio dopo la gara per il trasporto a spalla delle statue, privilegio che singoli o gruppi si contendevano a forza di grossi biglietti e che i titolari dell’appalto giocavano a render caro, vendendo anche la tenuta di un cingolo di ornamento o il posto di una mano sull’orlo della bara.

La ciurma di Barabba, che c’era tutta, parentela diretta e indiretta, legata dallo scrupolo e compresa insieme da un dovere di sangue come da un impegno d’onore, non avendo potuto, concorrere al privilegio in competizione con gente danarosa e ostinata a non cedere, aveva risoluto di seguire immediatamente da presso una delle statue, facendo quadrato compatto intorno all’eroe, e, non riuscendole col Cristo morto, che era seguito dalle autorità e dai dignitari del paese, aveva scelto il Crocefisso, che lo precedeva immediatamente e le pareva potersi, in dignità, considerare alla pari. Le statue uscivano dalla chiesa in successione temporale, secondo i momenti della Passione, ognuna con i suoi devoti e con il delegato della confraternita in abito da cerimonia, col baculo crociato e le altre insegne del grado, nel brusio della folla, che sottolineava l’impressione delle novità, e le note della banda pugliese, la cui scelta aveva impegnato le valutazioni e le polemiche di un intero anno.

Quando il Crocefisso ebbe varcato la soglia e disceso la gradinata, cercando il suo posto nel corteo, il brusio della folla si fece clamore, come per improvvisa ala di vento: Barabba occupava col corpo ampio il vano della porta e pareva una statua viva, coi grandi piedi scalzi, raccolti e fermi, come di belva, e il busto taurino fasciato stretto dal cordone ben intrecciato, a quadri eguali, come una grata a regola d’arte, la corona di spine ben adattata al testone pelato tramite un fazzoletto bianco che ne accentuava il colore scuro e le punte aguzze, e nella destra un cero acceso, non di quelli della comune devozione, ma del genere robusto di quello pasquale. Barabba si fermò un istante sulla soglia e tese l’occhio flaccido sull’onda umana, tra la sorpresa e la tracotanza, poi guadagnò a passi larghi e lenti, col corteo dei familiari, il suo posto nella processione.

(…) La processione si moveva quasi all’imbrunire e percorreva serpeggiando le vie secondarie del paese prima di risalire a quella centrale, per la quale, con un percorso quasi circolare, discendeva alla chiesa. Ogni statua aveva al seguito un suo coro di voci, con un proprio corredo di canti, in gara con quelli degli altri gruppi, ma tutti erano effusi e disperati, a gola piena, modulati all’inizio da un assolo al quale si accordavano le altre voci, e li univa un controcanto struggente, che usciva dal cuore senza regole, con l’unico registro dell’orecchio e della passione. I cantori alimentavano la voce nelle cantine disseminate lungo il percorso, uscendone

rinfrancati fino all’ebrietà, e quei cori, richiamandosi, contrapponendosi, armonizzando tra loro, fondendosi alle note della banda, gridavano il dolore del mondo.

(…) Quelli del casale si erano, in gran parte, ritrovati nello stesso punto e se lo godevano con ilarità e circospezione insieme, commentando a voce bassa. Barabba li vide e si fermò un attimo, volgendo su di loro uno sguardo condiscendente, come di divertita complicità, e fissandolo negli occhi di Peppe ’e ’Ntoni, che era davanti a tutti e il più voglioso di motteggiare. Peppe se lo sentì addosso e, senza darsene il perché, ne fu trafitto.

Un’ultima marcia della banda accompagnò il rientro delle statue nella chiesa, poi la gente sciamò e calò in poco tempo un silenzio triste ed eguale, rotto ogni tanto da un sussulto di voce avvinazzata e stanca.

Anche quelli del casale sciamarono in fretta per la stradella dirupata e il torrente in piena e la lunga arrampicata montana;

i lumi si riaccesero nelle case, ma gli uomini si fermarono in parte nella cantina, che attendeva apposta, com’era uso in quel particolare venerdì, per cancellare la tristezza dello spettacolo e la stanchezza della strada. Le chiacchiere, tra un bicchiere e l’altro, riguardarono, com’era naturale, la penitenza di Barabba e continuarono giulive quand’egli comparve, indolente come sempre e come se il cammino e il gelo non l’avessero toccato.

Tra lo scherzo bonario di tutti e il sorriso indifferente dell’occhio spento, qualcuno motteggiò:

«Barà, sei fatto santo! Una penitenza da maestro». Barabba non sorrise e rispose:

«Roba per mia madre. La penitenza doveva farla il traditore!».

E l’occhio spento cadde ancora su Peppe ’e ’Ntoni. Questi, che poc’anzi non aveva trovato alcun motivo al suo turbamento, intuì il terribile sospetto e cercò di sviarlo:

«Barà, ma che dici? Qui nessuno ti vuole male. Te’, bevi alla salute della compagnia».

E gli porse il bicchiere.

Barabba titubò, poi l’afferrò di colpo e gliene gettò con violenza il contenuto sul viso. Si smorzò di colpo l’ilarità e discese un silenzio di ghiaccio. Barabba, più lesto del gatto, aprì il coltello e colpì una, due, tre volte, finché lo vide piegarsi a terra, tra le urla degli astanti, che non ebbero né il tempo né l’animo di contrastarlo, e uscì lento e indifferente, brandendo il coltello insanguinato.

Lo presero in pieno giorno, raggomitolato nella stalla del padre. Si lasciò legare docile e assente e trascinare tra catene e moschetti come nella prima mala ventura. La gente chiuse le porte e le imposte, spiando dall’interno, come al passaggio di un funerale.

 

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