Lo Spleen di Pietroburgo di Roberto Valle (cinquecolonne.it)

di Francesca Amore, del 11 Dicembre 2021

Roberto Valle

Lo spleen di Pietroburgo

Dostoevskij e la doppia identità russa

Lo Spleen di Pietroburgo di Roberto Valle edito da Rubettino è l’ultimo libro, fresco di stampa dell’autore. Il prof. Valle, ordinario di Storia dell’Europa orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza”, torna ad occuparsi di Dostoevskij con un saggio interessantissimo. Studioso della storia del pensiero politico russo e degli slavi del sud, il prof. Valle  analizza l’immagine che ha Pietroburgo nella storia e nell’opera del grande scrittore russo.

In Lo Spleen di Pietroburgo, Roberto Valle ricostruisce la storia del mistero che aleggia attorno alla capitale, città quasi astratta, fantastica prodotto della doppia identità della Russia.

Proprio in merito alla doppia identità, abbiamo chiesto al prof. Valle di approfondire il tema del doppio, raccontandoci anche qual è l’aspetto che ama di più di Dostoevskij.

Ricordo inoltre, che per ulteriori approfondimenti su Lo Spleen di Pietroburgo di Roberto Valle, è possibile leggere un’altra intervista al prof. in cui vengono esaminati ulteriori argomenti legati alla città di Pietroburgo e alla riflessione politica e sociale di Dostoevskij

Lo Spleen di Pietroburgo di Roberto Valle 

Ne Lo Spleen di Pietroburgo lei affronta il tema del doppio, specificando che non ne parla dal punto di vista psicologico, bensì storico. Ci può chiarire a quale aspetto in particolare si riferisce?

Lo spleen di Pietroburgo, con le sue grigie giornate autunnali torbide sudicie,  rivela  all’osservatore esterno la doppia identità della Russia, originata dalla indescrivibile angoscia di fronte alla fatale e amletica suspense interrogativa: essere se stessi o essere qualcun altro con il  quale condividere una somiglianza strabiliante? Al di là del suo significato psicologico, l’interpretazione allegorica induce a considerare il doppio come parte inalienabile del passato storico, come nel caso di Pietroburgo e della pietrificazione della storia vivente nella statua equestre di Pietro il Grande il fondatore che, secondo Puškin, aveva fatto «impennare la Russia». Come nella storia pietroburghese descritta ne Il cavaliere di bronzo, anche in Dostoevskij l’idea del doppio rianima l’altero simulacro del passato che tornava a galoppare per le strade di Pietroburgo al tempo dell’inondazione del 1824. Sebbene l’insuccesso de Il sosia  decretato dal principe dei critici Belinskij,  fosse considerato un vulnus per lo sconfinato amor proprio e per l’ambizione del giovane scrittore, Dostoevskij non può essere identificato con Goljadkin, che non è un suo autoritratto psicologico.

La funzione etico-politica del doppio designa l’eclisse della sfera del proprio essere e la proiezione verso una alterità distante. Con la fondazione di Pietroburgo la capitale della Russia era stata collocata alla fine del mondo: l’ironica constatazione di Gogol’ si basava su una rievocazione degli altri mutamenti di capitale nella storia russa, da Kiev a Mosca. Mentre Mosca aveva assunto le sembianze di una casalinga trasandata, Pietroburgo era un dandy vanitoso che si specchiava nella Neva e nel Golfo di Finlandia ed elegantemente vestito girovagava ammirando l’Europa e facendo l’inchino alla gente d’oltremare. Pietroburgo sembrava una colonia europea-americana e i russi e gli stranieri non si erano ancora fusi in una massa omogenea. Le diverse nazionalità e i diversi strati della società conducevano una vita a parte, in circoli separati  come se  fossero invisibili agli altri: aristocratici, impiegati, commercianti, inglesi tedeschi facevano riferimento solo alla loro cerchia ignorando le altre. Lo spleen Pietroburgo, perciò, si caratterizza come un’indagine filosofico politica al fine di ricostruire la genealogia e gli sviluppi di alcuni aspetti peculiari della riflessione istoriosofica dostoevskiana posti nella prospettiva della doppiezza di Pietroburgo, quale epitome della doppia identità della Russia.

Lo Spleen di Pietroburgo di Roberto Valle

Rispetto alle altre capitali reali o immaginarie della Russia (Mosca, Kiev, Costantinopoli), Dostoevskij attribuisce  a Pietroburgo il merito di aver fatto conoscere l’Europa alla Russia, consentendole di forgiare una propria cultura. Mentre  per gli slavofili e per gli eurasisti  l’europeità  è una malattia letale, per Dostoevskij è  la conferma della doppia identità della Russia che, nella sua complessa esistenza errante tra Oriente e Occidente,  non può  essere scissa.

Lei ha scritto altri libri che si focalizzano sulla figura di Dostoevskij e sul suo rapporto con la politica e la società. Qual è l’aspetto di questo incredibile scrittore che la affascina maggiormente?

Ricostruire l’intricato tracciato di una lettura politica di Dostoevskij è una  affascinante avventura intellettuale ed esistenziale, perché   consente non solo di ricollocare il pensiero politico dostoevskiano  nella sua epoca, al di là di ogni cliché ideologico e di ogni incongrua semplificazione dell’attualizzazione permanente, ma di comprendere che Dostoevskij, come Nietzsche, ha scritto per i due secoli successivi al XIX. La tragica complessità della riflessione politica di Dostoevskij ha posto in evidenza alcuni tratti peculiari di un’epoca transitoria  e fatale caratterizzata dall’isolamento, quale condizione patologica della vita individuale, dalla famiglia casuale, quale attestazione della casualità ed evanescenza dei rapporti famigliari e sociali,  e dal culto del denaro, quale prima ipostasi del mercato d’azzardo.   Dostoevskij ha rivelato i paradossi terminali dell’epoca  industriale-borghese con la quale sono comparsi Palazzi di Cristallo, città terribili, esposizioni universali, il mito del progresso illimitato.

I regni della borghesia hanno decomposto e disgregato la società europea, incanagliendola per alcuni secoli. Dostoevskij intende rendere visibile la decomposizione della società, la degradazione psichica e culturale di un’epoca che aspira all’illimitatezza: tale degradazione è  aggravata dalla mancanza di idee morali e dall’affermazione di fedi appassionate e distruttive. Come in Amleto, l’epoca è fuori dai cardini, caratterizzandosi come il tempo dell’ aurea mediocritas , dell’insensibilità, della passione per l’ignoranza, per l’indolenza, per l’incapacità al lavoro e per la pretesa di trovare già tutto a disposizione. Nel  Diario di uno scrittore, opera sperimentale ancora insuperata , Dostoevskij ha  assunto il ruolo trasgressivo del paradossista (paradoksalist’). All’ orientamento   rettilineo delle ideologie correnti, che tendono ottusamente verso una meta prefissata, Dostoevskij contrappone la rotta zigzagante del paradosso, che scompiglia l’acquisito e si ricollega  al movimento incessante e imprevedibile della vita vivente.  Dostoevskij prefigura la discentio ad inferos dell’ homo democraticus, quale emblema della mediocrità compiuta,  destinato a smarrirsi nel labirinto del Palazzo di Cristallo. Scrutando l’orizzonte temporale del capitalismo, Dostoevskij è riuscito ad antivedere l’immobile stagnazione selvaggia del mondo globale che finge di vivere una vita inutilmente accelerata, ma che ristagna in una sorta di cristallizzazione e di ossidazione di un eterno presente senza via di scampo.

La cristallizzazione del mondo post-storico è epitomata dal Palazzo di Cristallo ed ha universalizzato la noia e la libertà triviale della ferinità incivilita, per cui il male post-moderno è la negatività disoccupata della serra globale: una sorta di edificio-recinto emblema della biopolitica. L’estasi tecnologica ha prodotto la stupidità strutturalmente indotta, quale non pensiero dei luoghi comuni, che è un tedioso deserto dell’uniformità spacciato per realtà: il male mediocre deriva dalla conciliazione forzata tra libertà e uniformità. La singolare e tragica complessità del pensiero politico di Dostoevskij consente all’uomo contemporaneo di orientarsi, senza aderire alla deriva selvaggiamente post-umana di un’epoca di negazione e di incertezza che ha visto il rapido dissolversi di ideologie che sembravano vincenti e delle quali lo sguardo acuto del grande scrittore russo aveva intravisto la caducità. Dostoevskij è il poeta della grande città: Dostoevskij non ha scritto romanzi perché la struttura narrativa dei suoi scritti trascende la funzione descrittiva del tempo storico e biografico, relativamente continuo, e concentra le azioni sui punti di crisi, fratture e catastrofi, realizzando il miracolo sognato anche da Baudelaire: “una prosa poetica musicale pur senza ritmo né rima, così flessibile e così inflessibile da adattarsi ai modi lirici dell’animo, al fluttuare dei sogni, ai soprassalti della coscienza”. Tale forma  sconfinata di poema in prosa è  espressione della frequentazione delle smisurate città, dall’incrociarsi dei loro infiniti rapporti che appaiono come un intrico di grida e di canti interrotti.

A chi è diretto il suo saggio? E’ adatto al lettore comune oppure è maggiormente indicato per un pubblico accademico?

Il libro si rivolge non solo agli studiosi ma anche a un pubblico più vasto e, in particolare, alle giovani generazioni di studenti. Dostoevskij considerava l’eccessiva semplificazione una sorta di catastrofe della cultura nell’epoca del nichilismo meschino caratterizzato dalla volontà di ignoranza. Per Dostoevskij, non bisogna abbassare la cultura al livello della semplificazione banale, ma elevare l’uomo alla complicatezza della creazione artistica.