La domenica del villaggio: Daverio, Radicofani, “vittoria mutilata” (ereticodisiena.it)

del 6 Settembre 2020

Paolo Soave

Una vittoria mutilata?

L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi

Dopo la agostana pausa, si torna a pubblicare la rubrica cultural-domenicale (nel frattempo, si è accumulata una quantità imbarazzante di temi ed argomenti, che speriamo, prima o poi, di smaltire); si parte con la presentazione di un libro che merita davvero di essere letto, e che ci ha fatto conoscere uno storico senese di valore, Paolo Soave; poi, un ricordo dello scomparso Philippe Daverio, per cedere infine il passo ad una nuova rubrica (“Paese in cui vai”), dedicata a paesi e borghi del Senese: si parte con Radicofani, e – a Zeus piacendo, ovviamente – si proseguirà con altri…

UNA VITTORIA MUTILATA, DI GRAZIA?

Parafrasando il buon Manzoni, fu vera vittoria mutilata (quella dell’Italia nella Grande guerra)? Siccome i posteri siamo noi, proviamo ad articolare una risposta (la quale, ovviamente, non può essere categorica e drastica, tanto è complesso lo scenario di cui si tratta).

In ogni caso, la lettura del saggio del professor Paolo Soave “Una vittoria mutilata? L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi”, uscito a giugno per Rubbettino, può fare non solo conoscere ancora meglio l’argomento, ma ha il pregio di farci riflettere sullo stesso (e lo faremo in pubblico giovedì prossimo in Fortezza, alle ore 18: lo scrivente, insieme a Soave ed al professor Monzali); con la lucidità del ricercatore (Università di Bologna, Storia delle relazioni internazionali), con uno stile asciutto ed essenziale, senza inutili appesantimenti da storico italiano medio, Soave squaderna la complessità della partita a scacchi che si giocò a Parigi e dintorni alla fine della Grande guerra.

L’autore scrive di “connessioni fra la politica estera fascista e la “vittoria mutilata”, che come un fiume carsico (immagine azzeccata ed appropriata, diremmo, quella del Carso, Ndr) riemerse in alcuni passaggi, come la soluzione della questione di Fiume e l’occupazione dell’Etiopia”. Lo slogan dannunziano (tirato fuori dalla funambolica mente del Vate il 24 ottobre del 1918, alla vigilia dell’attacco finale italiano agli austro-ungarici) ebbe un indubbio successo, ma oggi, raffreddata crocianamente la incandescente materia, ne si può trattare sereno pacatoque animo, come appunto più che lucidamente fa Soave.

Leggendo il libro, a dir poco plurimi sarebbero gli spunti da trattare diffusamente: per la consueta deficienza di tempo, ne segnalo solo uno, cioè il fatto che l’Italia dichiarò guerra alla Austria-Ungheria il 24 maggio del 1915, come risaputo (magari lo fosse dalla maggioranza…); ma la dichiarazione di guerra alla Germania, quella arrivò solo nell’agosto del 1916, stanti i rapporti economici così forti e cogenti con Berlino, si pensi per esempio all’ascesa della Banca commerciale (pagina 28): più che “sacro egoismo”, furbizia italica, per l’appunto?

In ogni caso, l’Italia liberale, l’Italia del tris Salandra-Sonnino-Orlando (più Vittorio Emanuele III, ovviamente) voleva diventare una grande Potenza, ma non ne aveva proprio lo status, e andò come andò. Secondo Nicolson (citato da Soave a pagina 106) “Italy was determined to become a Great Power without the internal force to justify such an ambition”.

Postilla finale, che è dello scrivente e non dell’autore; passano i decenni, ma siamo sempre lì, dal punto di vista della italica autoreferenzialità: ci diciamo che tutto il mondo guarda all’esempio italiano per la nuova guerra (quella contro il coronavirus), quindi siamo una grande potenza; ma, forse, non è proprio proprio così…

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