Com’è pop Alarico (Corriere della Calabria)

di Eugenio Furia, del 25 Ottobre 2013

Dal Corriere della Calabria del 25 ottobre

“Atene della Calabria” o “Parigi del Sud”? Così uno studioso (cosentino) demolisce i luoghi comuni del primato bruzio e smonta la storiografia di parte

Si può criticare dall’interno il sistema culturale di una provincia erudita? Si può ma non si fa, o almeno non si dice perché non conviene inimicarsi nessuno. Giovanni Sole ha avuto il coraggio di farlo, cioè di metterlo nero su bianco. Sessantenne, docente di Storia delle tradizioni popolari all’Unical, Sole ha scritto – da cosentino, il che è appunto una nota di merito in casi come questo – un gustosissimo saggio che, per semplificare, fa a pezzi la cosentinità e i supposti primati culturali del capoluogo bruzio. Facendo nomi e cognomi – e fornendo titoli – di chi secondo lui ha partecipato a creare il grande inganno culturale di Cosenza.
Sole parte da alcuni fatti storici e si fa supportare, appunto, dalle carte. Il risultato è “Il barbaro buono e il falso beato” (Rubbettino), un lavoro filologico con la freschezza del pamphlet polemico. Che sicuramente non piacerà ai tromboni della cultura dei circoli e dei salotti buoni (anch’essi presunti) e farà parlare di sé la città – o meglio la sua parte più “provinciale” e attenta ad apparenze e galloni. Per una volta un “professore” si distingue per non partecipare alla difesa castale e preconcetta dei suoi simili.
La prosa è schietta. L’autore entra subito in medias res: «Non si comprende per quale motivo i cosentini dovrebbero amare Alarico, considerato che era venuto in Calabria per depredarla così come aveva fatto in diverse città. La figura di Alarico ha però suggestionato i cosentini: alberghi, ostelli, ristoranti, pizzerie, cooperative, aziende agricole, circoli culturali e palestre sono intitolati a lui; in provincia è possibile acquistare olio, pane, vino e latte col marchio di Alarico; comuni, agenzie turistiche e associazioni culturali propongono percorsi sulle sue orme che culminano con sagre e degustazioni». Facendo l’esempio del festival delle Invasioni – il cui logo è proprio l’elmo barbaro – Sole annota che, se da un lato è giustificabile «che l’effige di Alarico possa funzionare come marchio dal punto di vista economico e turistico», dall’altro non convince «che a lui si pretenda di associare l’amore per la cultura e la pace tra i popoli».
Nel ricordare che altre due grandi condottieri dell’antichità, come testimoniano le fonti storiche, avevano trovato la morte a Cosenza (il re d’Epiro Alessandro il Molosso e l’emiro saraceno Ibn Ahmad Ibrahim), l’autore nota come «l’impianto che caratterizza i racconti» a loro ispirati prevede «condottieri spietati e sanguinari» che «trovarono a Cosenza la strenua resistenza di coraggiosissimi cittadini e, se ciò non bastava, interveniva direttamente il castigo divino. La morte di questi condottieri, inoltre, era già stata profetizzata da vaticini o segni particolari». Una summa di luoghi comuni e superstizioni locali. «Il messaggio che gli storici cosentini volevano comunicare era chiaro: mentre nelle altre città del Sud gli abitanti terrorizzati fuggivano vilmente davanti all’invasore, mostrando di non avere coraggio e amor patrio, i cosentini, degni figli dei fieri Bruzi, affrontavano i nemici senza paura. Cosenza era una città di uomini liberi, sempre pronti a battersi contro coloro che volevano soggiogarla e, quando le forze del nemico erano soverchianti, poteva contare sul buon Dio che puniva con la morte i capi degli eserciti invasori. Potenti armate che avevano espugnato grandi città e fortezze, giunte a Cosenza, centro vulnerabile e povero di abitanti, venivano fermate: i cosentini non solo riuscivano a proteggere la loro città, ma l’intera penisola dalla violenza di uomini rozzi e malvagi». Una storiografia di parte che diventa quasi agiografia intenta a costruire il mito della «presunta identità cosentina». Una storiografia di parte che genere il suo uguale e contrario: «Gli intellettuali cosentini dell’Ottocento reagivano ad una storiografia faziosa e fittizia, ma anch’essi finivano per creare nuovi miti falsificando e inventando la storia».

Il libro è una miniera di riferimenti bibliografici. Interessantissime e illuminanti, poi, le spiegazioni che demoliscono certezze granitiche delle accademie e dei professoroni alle quali siamo abituati: lo storico Girolamo Marafioti, ad esempio, ricordava che esistevano famiglie nobilissime di nome Asini o Bestia e ciò non voleva dire che i loro membri fossero asini o bestie; allo stesso modo i Bruttii (nome dato alle popolazioni autoctone) portavano questo nome senza essere dei bruti.
Alcuni passi del libro sono spietati nella loro amara comicità: l’autore ricorda come l’entusiasmo per Alarico abbia raggiunto l’acme in occasione dei milleseicento anni dalla morte. Fin dal 2008, gli amministratori comunali avevano costituito un «comitato di saggi» composto da archeologi, operatori culturali, professori universitari ed esperti del patrimonio artistico, e oltre a conferenze stampa e convegni di rito «con orgoglio e soddisfazione, annunciaron di avere inoltrato richiesta alla Federazione italiana gioco calcio, affinché si potesse disputare nello stadio comunale una partita tra la nazionale tedesca e quella italiana: evidentemente si riteneva che Alarico fosse tedesco!».
Sole si dimostra a tratti feroce, come quando demolisce in sette righe la Cosenza da cartolina (o da comunicato stampa): «Oggi piace pensare Cosenza come una città moderna, naturalmente disposta allo scambio culturale e al multiculturalismo. Per questo motivo risulta riduttiva la tradizionale definizione di “Atene delle Calabrie”, mentre pare molto più efficace quella di “Parigi del Sud”. La città ha, di volta in volta, assunto caratteri diversi: da città spartana abitata da gente rude e guerriera, a polis ateniese culla dell’arte e della cultura, a metropoli parigina multiculturale e capitale del divertimento. Cosenza viene presentata come la città dei teatri, delle biblioteche, delle librerie, degli artisti, delle associazioni culturali, dei caffè letterari, dei ristoranti, dei pub, dei fiumi e dei boulevard; ma anche solidale, cosmopolita e interculturale, e lo straniero, oggi come un tempo, è bene accolto e protetto». Poi la cronaca e il vissuto quotidiano spesso stanno lì a dire il contrario.

Eloquenti i titoli dati ai vari capitoli: “L’invenzione della storia” e “L’invenzione della tradizione”, ma anche “Accademici tronfi e pettoruti” – fotografia impietosa della categoria di cui lo stesso Sole, docente universitario, farebbe parte almeno sulla carta – e “La metropoli dell’iconolatria”, in cui tra i luoghi comuni “smontati” c’è quello del germe della disobbedienza nei cosentini: «Le cronache degli storici cosentini – scrive Sole – ci descrivono una popolazione sempre pronta a combattere contro l’arroganza dei feudatari e l’egemonia del clero, dalla mentalità laica e aperta alle correnti liberali europee. Ciò spiegava perché tra le sue mura si organizzarono e prosperarono gruppi giacobini, logge massoniche, vendite carbonare, associazioni patriottiche e rivoluzionarie. Nel Risorgimento, Cosenza fu teatro di alcune insurrezioni finite tragicamente che commossero l’intera Europa, ma la gran parte dei patrioti non erano cosentini. Mentre in provincia migliaia di uomini si arruolavano nelle fila garibaldine, i cosentini, in gran parte moderati, preferivano rimanere in città». Un esempio su tutti: in un saggio dedicato ai calabresi della spedizione dei Mille, quasi un secolo fa lo storico Camardella forniva le biografie dei «cosentini» che si erano battuti con coraggio a fianco di Garibaldi, ma nessuno di loro era nato e vissuto a Cosenza.
Ai capitoli dalla struttura “satirica” sono inframmezzati quelli più propriamente storici ed etno-antropologici, come quello sul tesoro sepolto secondo tradizione sul letto del Busento: anche qui, a Sole basta snocciolare le fonti per dimostrare su quali basi i “topoi”, i luoghi comuni, siano sedimentati negli anni.
Che quella di Alarico abbia assunto toni da leggenda, quasi da fabula letteraria, lo dimostra in ultimo il fumetto di Martin Mystère che – in un opuscolo pubblicato dalla Provincia di Cosenza – parte da New York e giunge in riva al Crati alla ricerca del tesoro del re goto morto nel 410 nel capoluogo bruzio. Indiana Jones – commenta Sole – «avrebbe sicuramente localizzato il sepolcro di Alarico. Per ironia della sorte, nella fiction hollywoodiana i suoi antagonisti erano proprio i nazisti che stavano per impossessarsi della mitica Arca dell’Alleanza»: proprio come Himmler, il gerarca che si fermò a Cosenza per trovare la tomba di Alarico, «non perché fosse interessato al tesoro, che avrebbe dovuto comunque consegnare alle autorità italiane, ma perché si presumeva che Alarico avesse preso a Roma proprio l’Arca dell’Alleanza, reliquia capace di sprigionare una energia tale da scheletrire gli uomini».

Dulcis in fundo, anzi in cauda venenum, nel capitolo su “La nostalgia del passato”: «Sorge il sospetto che le critiche all’attuale classe dirigente cosentina siano influenzate dalla nostalgia di un passato mitico. Gli scontenti dimenticano che anche i parlamentari del dopoguerra erano espressione di una politica clientelare e familista, che le loro segreterie erano affollate da gente che chiedeva favori. Molti rimpiangono i politici del passato, dimenticando le loro responsabilità nello scempio edilizio».
Ma Sole ne ha anche per la pletora di avvocati – anche qui, non è mica una novità – e cita una deliziosa descrizione di Guido Piovene che nel suo “Viaggio in Italia”, alla metà del Novecento, si meravigliava dello «spettacoloso» numero di avvocati di Cosenza che condizionava perfino i ritmi della vita sociale: in città si faceva colazione tardi perché i legali comparivano in tribunale fra le undici e mezzogiorno; e non risparmia la toponomastica cittadina (sospesa tra intitolazioni ad effetto sconosciute agli stessi amministratori che le hanno promosse e la “spartizione” tra i vari partiti politici). Quando accenna a un altro totem, il ponte di Calatrava che secondo i piani dovrebbe essere attualmente percorribile, il collegamento al Museo di Alarico è quasi obbligato. E il cerchio si chiude, con l’ennesimo sorriso amaro: «Sembra che negli ultimi tempi l’entusiasmo per Alarico stia calando, tuttavia l’amministrazione comunale di Cosenza ha annunciato l’istituzione del “Museo Alarico” che sorgerà proprio davanti alla confluenza del Crati e del Busento. Chissà quali documenti e reperti goti saranno esposti nelle sale». Già, siamo tutti curiosi – ammesso che in quel museo potremo davvero prima o poi entrare.

Di Eugenio Furia

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