Il cammino di vita di Flesherman, un noto criminologo, fino a quel momento costellato di vittorie e fama, incastonate in una vita tranquilla, s’inceppa. Sassi appuntiti, come ossa sbucate dal terreno, interrompono la sua vita lucida. Sono i primi segni di una demenza senile che cavalca nella sua mente annunciandogli una fine gonfia di nebbia.
Proprio nel momento in cui la diagnosi gli cala sulle spalle, un amico lo chiama da Berlino. Serve il suo aiuto per sciogliere un caso che ha tutta l’aria di diventare un pezzo di storia. Il cadavere di Rosa Luxemburg, il vero cadavere di Rosa Luxemburg, attende degna sepoltura. Il corpo, chiuso nella tomba da decenni è quello di un’altra. Ma occorre il piglio e il settimo senso di Flesherman per averne la certezza. Comincia così la salita, che è anche la discesa, del protagonista che sdrucciola lungo un percorso arso.
Giuseppe Aloe torna in libreria con il romanzo “Lettere alla moglie di Hagenbach” (Rubbettino, pp. 200, 16 euro), sguainando l’arma del sogno per raccontare le nebbie della malattia. E lo fa con un linguaggio visionario che procede a stimoli elettrici. La grande capacità dello scrittore calabrese, adottato da Milano (candidato allo Strega nel 2012 con “La logica del desiderio”, Giulio Perrone ed.) è proprio quella di raccontare con l’agopuntura, stimolando cioè dei punti precisi dell’immaginazione del lettore che, in un verbo o una coppia di parole, legge e vede perfettamente, ricorda, aggancia e fluisce nel mondo dell’autore senza far rumore.
Lo scrittore è come seduto al bancone di un bar e cerca compagnia. Divide con il lettore un bicchiere e intanto condivide gli odori della città e racconta la sua storia. Ma non è il mistero del corpo ritrovato la chiave che aprirà la serratura saldata. È solo il primo fuoco che segna il cammino, è il dito di rum che cala veloce e scalda la pancia, è il destino che versa un altro giro e porta in una direzione calcolata perché tutto avvenga com’è definito avvenga. Chi legge accompagnerà Flesherman nella calata in acqua dei suoi ricordi che si mescoleranno ad altre correnti, tanto che quasi non si distinguerà più il presente dal passato e dall’immaginazione dell’ora.
Di questa tempesta della mente, Flesherman è consapevole. Da razionale investigatore, sa cosa gli sta accadendo, ma non vi si oppone, vuole solo mangiare più vita possibile, ed è per questo che il sentiero del mistero principale poi si dissolverà in un altro mistero: la scomparsa di Hagenbach, scrittore ombroso e anomalo, svanito nel nulla dopo il ricovero della moglie malata anche lei di demenza senile.
Questa comunione di paura, la curiosità di vedere cosa sarà di lui, cosa gli potrebbe accadere, sarà il vero viaggio di Flesherman. La Berlino delle piazze aperte, della bruma grigiastra che raffredda gli alberi e la gente che ne anima le vie disegnate a china, farà posto al vento che tira sulla costa, mentre mormorano, nella brezza, le lettere di Hagenbach alla sua compagna ormai abbracciata dall’oblio indaco.
Con un passo da contrappunto, la storia di Aloe ha la leggerezza di certe stagioni che scorrono veloci ma si portano un pezzettino di quelle trascorse, come un bagaglio d’acqua che man mano che si riempie, fuoriesce da un forellino e lascia piccole tracce, tocchi circolari, che permettono di seguire la via. Poi la riserva finisce e anche le impronte sul terreno si fanno più leggere. E scompare il dolore, il ricordo, che ingoia un passato rimasto sempre sulla punta della lingua a contaminare i sapori anche dei bocconi dolci. La memoria di una madre perduta è quella goccia di amaro che infine scende giù, brucia la gola, e trova pace.
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