Fellini un antiberlusconiano ante litteram (Reset)

del 9 Ottobre 2012

Da Reset – settembre 2012
Accostare Fellini alla parola politica potrebbe suonare oltraggioso, specie di questi tempi, che fanno scattare brutte associazioni, magna magna e gomme bucate ai disabili. Proprio Fellini poi, il vate fuori dal mondo, il demiurgo dell’immaginario amarcord, il genio incantatore che ha reso universale il patrimonio ancestrale, da gran burattinaio delle mitologie dell’italianità. Fellini che è sempre stato con un piede dentro e uno fuori dal reale, che delle masse sollecitava gli archetipi, ritraeva i mimetismi, le psicodinamiche collettive, sondandone i canali inconsci.
L’ha fatto cercando d’uscir fuori dal seminato neorealista dove in quegli anni s’erano un po’ tutti sistemati, inseguendo altre piste cinematografiche, invenzione, linguaggio, seduzione, scelte di stile che però, nella provincialotta Italia post-resistenziale, erano bollate come estetismi frivoli, superficialità conniventi. Ma a quei tempi se non eri un marxista non eri un regista, la pellicola non adoperabile didatticamente e politicamente era inutile e quindi cadeva sotto il marchio di “misticismo decadente”; e Fellini, avvoltolato com’era nella sua dimensione lunare, quando creava le sue opere d’arte se ne fregava della lotta di classe e dei diktat delle sezioni culturali di partito, e per questo era ostracizzato dall’establishment neorealista.

Fellini che, visto e considerato che l’impianto critico imperante era la lotta tra indiani e cowboys, dovette tagliare la scena dei Vitelloni con il gestaccio di Sordi ai lavoratori, ché sennò sembrava un capitalista travestito.
La passione di vedere nelle opere altro che esse stesse è un tic mai tramontato nel nostro sempre polemico Paese, dove vige la legge della bandiera ideologica, dove si va al cinema non per gustare la scena ma per cercare il retroscena. Cosicché Andrea Minuz con Viaggio al termine dell’Italia con precisione certosina mette ordine al caos delle interpretazioni ideologiche del cineasta di Rimini, svelando il complicato rapporto con il suo tempo, illuminando le contiguità con sistemi di potere che tanto schivava quanto conosceva bene, un Fellini che era amico stretto e compagno di penna di Andreotti (come documentato da uno scambio di lettere tra i due pubblicato in appendice al libro) e che probabilmente conosceva meccanismi e arcani dei palazzi del potere come neanche un Roberto D’Agostino.
Visto che liquidare un gigante così mica era facile, tanto valeva tirarlo al di qua della barricata, per questo, sul finire degli anni Sessanta, la rivista del Pc sovietico Kommunist svelava a Fellini con tono maestrino che aveva travisato se stesso, che era un neorealista a sua insaputa, che i suoi film avevano “un senso oggettivo” e aprivano “orizzonti molto più vasti” della sua celletta artistica. Così in quel mostro marino che chiude La dolce vita c’era l’acuta rappresentazione dell’agonia della civiltà capitalistica, e se contemplavate ipnotizzati il Rex, il transatlantico di cartone che solca il mare di plastica, sappiate che era già una prefigurazione della comatosa Concordia, e in quella messa in scena di cartapesta c’era già tutta la critica della società dei consumi, e il futuro mare di sprechi, e l’irresponsabilità sciupona al timone, per farla breve c’era già Schettino.
Così Fellini è diventato visionario. Profetico addirittura. In Ginger e Fred aveva già nascosto una satira antiberlusconiana ante litteram, ma già dietro l’harem sognato da Guido in 8 e ½ c’erano le olgettine del Caimano, così come tutta la Polverineide e la Batmaneide, e nel Satyricon felliniano (a questo punto, per par condicio, anche in quello petroniano) c’era già inviluppato il Satyricon pecoreccio de no’artri, e la tracimazione cafonal e le chiappe omeriche, e i greci confusi coi romani confusi coi proci confusi coi porci, e tutto il futuro dispiegamento di ostriche e sciampagnini e tacchi dodici, averlo saputo.
Non solo marxista, ma anche folkloristico, cattolico, junghiano. Letture, letture incrociate, controletture e controfellini. La tipica ambiguità felliniana non si può lasciare intatta nel suo enigma, va dipanata con qualche domestico scolapasta teorico. Ed era anche antropologo sociale Fellini. Perché qui in Italia ritardiamo la maturazione ad libitum, indugiamo oltremodo nello stadio infantile, così che all’ennesima ermeneutica fatta da altri su stesso alla fine Fellini lo ha ammesso, anche lui è l’italiano tipo, l’Edipo mammone, l’enfant terrible (però lui poteva dirlo perché era l’enfant prodige, mentre l’uomo-massa è enfant e basta).
Diciamolo, questo Fellini era un antiberlusconiano ante litteram. Specie negli ultimi anni era diventato un Savonarola dello stile rotocalco, ma già dai primi film dovevamo smascherare in lui il moralista dalla vis censoria. Quel Fellini che faceva infuriare le femministe, che gli rinfacciavano di ridurre il mondo a un lato b femminile, è lo stesso Fellini profeta della deriva triviale, dell’attaccamento alla roba. Attaccamento che finché fungeva da marchio glamour per il palcoscenico della Dolce Vita passi pure, ma era da legge endogena che scadesse nella sottocultura fognaria, e che la patina della Roma Bene celasse l’unto dell’amatriciana e il rutto vernacolare e tutte le deiezioni del caso.
E sì, Fellini sarà pure stato un Menenio Agrippa andreottiano e Prova d’orchestra un film reazionario, così come scrivevano i critici dell’Unità, e il direttore sarà anche somigliante a Gianni Agnelli o perfino a Hitler. Ma se questa tecnica di misurare l’alto col basso faccia onore all’estetica felliniana è tutto da vedere. Il tacito accordo con il lettore di Minuz è forse proprio questo, che per ricostruire la parabola cinematografica del regista spalanca un mondo di contaminazioni che va da Ernesto De Martino a John Schellenberg, dallo psicanalista junghiano Ernst Bernhard a Georg Simmel, da Elémire Zolla a Leonardo Sciascia. Ricostruzione che è anche genealogica, nel senso che discende dalle stelle alle stalle e allo stalliere di Arcore, condotta con l’astensione dal giudizio, nello stesso stile stendhaliano accreditato al regista, «Je ne blame, ni n’approuve, j’observe», ma che lo stesso crea qualche sofferenza quando fa riferimento al Pinocchio-Effect, libro con cui Suzanne Stewart-Steinberg rattrappisce buona parte delle nostrane produzioni artistiche negli schemi del complesso del burattino. Ma chissà, forse dovremmo rassegnarci, noi Pinocchi, noi bamboccioni e italiani medi, a essere schedati e psicanalizzati nelle nostre più intime sindromi da remoti dipartimenti di cultural studies oltreoceano.
Eppure non sarà che a forza di captare, smascherare, inquadrare, irreggimentare, non si scarnifichi un po’ troppo, non è che a spogliar via tutte le forme, non si ritrovi più la sostanza, e che in fondo tanto valeva mettere al bando queste operazioni verità e non capirci un tubo, ma goderci e basta nella nostra naiveté quella via Veneto fantasmagorica, quei personaggi icone perenni, quelle eleganti carrellate di cliché sul modus vivendi di giornalisti rampanti, critici da terrazza, narcisi in crisi, insomma quei nostri miserrimi eterni complessi trasfiguratisi in simboliche universali? E se la cifra dell’estetica felliniana non stesse in una qualche retrostante realtà, ma, come dice Minuz, nella «reinvenzione di una realtà distillata nei suoi archetipi, filmata in una chiave palesemente teatrale», e dunque nell’articolazione dei suoi oggetti, negli espedienti ingegnosi che adoperava per mettere in scena le nostre idiosincrasie? Come la vanità di opinare su tutto, tanto noiosa che Fellini con il salotto altoborghese di Steiner ne La dolce vita l’ha perfidamente fatta specchiare nelle nature morte di Morandi. Indro Montanelli, nel commentare quegli intellettuali stanchi, così scriveva nel 1960: «Siamo noi, quei tipi? Sì, siamo noi, Dio ci perdoni». Appunto. Dio ci perdoni.

Di Laura Cervellione

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