La fede e i valori del compagno Saul: la fede ed i valori di un comunista

del 29 Luglio 2013

Da Il Quotidiano della Calabria del 29/07/2013

Non mi era mai capitato di recensire libri scritti da politici, d’ogni indirizzo. Per Matteo Cosenza ho fatto volentieri un’eccezione dopo averlo conosciuto ed averne apprezzato le qualità umane ed intellettuali messe generosamente a disposizione durante la bella, recente esperienza del “Cortile dei Gentili”. In particolare e nella circostanza, ne ho ammirato l’indipendenza di giudizio e l’acume critico. C’era una volta l’Italia. Anzi, un’Italia che ubriaca dei sogni di gloria, di imperi favolosi, di ricchezze trasportabili in Patria dopo guerre lampo, ma che dico?, quattro scaramucce e poi i barbari libici, etiopi, eritrei, albanesi, perfino quei barbari di greci, sarebbero scappati a gambe levate . L’Italia, dicevo si risvegliava ad un tratto, dopo l’esito disastroso della guerra esterna ed interna, con le macerie fumanti, con milioni di persone tra militari e civili, tra caduti e invalidi permanenti, non più presenti alle adunate oceaniche del Duce, ma in compenso con i marocchini in casa che saccheggiavano, incendiavano, stupravano donne e bambine. (“La ciociara”, di Albero Moravia).Che i sogni di gloria sarebbero finiti in disfatta solo una sparuta percentuale di italiani avevano il coraggio di dirlo fin dall’omicidio di Matteotti ed anche prima, e costituivano un’altra Italia ancora, formata dai “professorini”, che si incontravano a Camaldoli per dipingere l’affresco della Nazione post fascista, e da chi aveva da sempre avversato le camicie nere e chi le aveva volute, pagate, sostenute e imposte, a cominciare dai Savoia e continuando con l’aristocrazia e, soprattutto, la borghesia sia industriale, sia fondiaria.
Era l’Italia ignorata di chi veniva sbattuto in galera o inviato al “confino politico” dai tribunali speciali del regime, come Carlo Levi (“Cristo si è fermato ad Eboli’), Gramsci, Pertini, Terracini, Di Vittorio, De Gasperi e tanti altri. Poi, dopo il 25 luglio 1943 (la caduta di Mussolini nella storica seduta a Palazzo Venezia del “Gran Consiglio”) era accaduto che “i professorini” (la Pira in testa) e i carcerati/confinati andassero a combattere come partigiani alla macchia (dai monarchici ai comunisti, passandoper i liberali, i democristiani, i repubblicani, i socialdemocratici, i socialisti, gli azionisti e gli anarchici)- per cacciare una volta per tutte nazisti e fascisti. Ebbene, da queste Italie ‘i’esistenti” Granato “lo spirito costituente”, in cui tutti erano animati da un solo, superiore, nobile obiettivo: fare una Italia unica, pacificata, repubblicana, democratica, garante di quelle libertà che all’uomo sono connaturate quali diritti naturali di idea, di fede politica, di religione, di espressione, di associarsi in partiti e sindacati. Con il referendum istituzionale popolare e universale del 2 giugno 1946 (le donne votarono per la prima volta!)questo sogno si avverò. E venne la Costituzione, scritta non senza contrasti e battaglie perché i 555 Padri costituenti erano stati eletti in rappresentanza di tutti gli schieramenti che prima ho elencato più quelli dell’estrema destra, cioè l’MSI capeggiato da Almirante. Era “normale’ , direi fisiologico che gli scontri ci fossero. Però emerse subito una cosa fondamentale: tra i democristiani e loro alleati da unap arte, (De Gasperi)i socialco.munisti (rispettivamente Nenni e Togliatti) dall’altra, non ci fu mai una chiusura preconcetta, non ci fu un “veto” sulla proposta della parte avversaria. Ecco un altro aspetto importante, decisivo: non si considerarono.mai “nemici” bensì avversari. Palmiro Togliatti morì nell’agosto del 1964 . Nonostante il caldo e la stagione delle vacanze, la fila per andare a rendere omaggio alla sua salma (esposta alle “Botteghe oscure”, presso la casa editrice “Rinascita”)la fila silenziosa arrivava fino a piazza Argentina. Giancarlo Paletta, uno degli onorevoli più “duri” del PCI, affacciato alla finestra notò Giorgio Almirante, irriducibile avversario, in fila. Si precipitò e lo prese sottobraccio portandolo davanti al feretro. Almirante tacque a lungo, poi commosso disse: «è stato un grande combattente e leale avversario. Gli rendo onore! » . Ebbene, questi politici avviarono il Paese a tutta un’altra storia: quella della pacificazione, della ricostruzione morale e materiale: troppe erano le ferite da rimarginare, troppi i lutti da sopportare con dignità. Moro esempio, forse, farebbe bene a tanti personaggi odierni.
Partì la ricostruzione che, a pensarci oggi, ha del miracoloso. Infatti si diceva e si scriveva del “miracolo italiano”, grazie soprattutto all’ IRI ed alla sua egemonica e .mirata presenza nella cantieristica, nella siderurgia, nelle costruzioni, nella finanza, nell’industria alimentare, cui poi si aggiunse, grazie ad Enrico Mattei, l’ ENI (cioè gli idrocarburi). Accanto al settore pubblico, che fungeva oltre che da leva possente anche da cabina di regia, le grandi aziende private, FIAT in testa. Questa lunga premessa è doverosa e necessaria alla storia che Matteo Cosenza ci racconta, quasi per adempiere un voto trentennale. E la vicenda, scritta con mano sicura e stile piacevolmente spartano, di Saul Cosenza, suo padre, da tutti e da sempre chiamato “il compagno Saul”. II contesto di riferimento economico, antropologico e sociale è Castellamare di Stabia, con il suo storico cantiere navale, uno dei tre della Fincantieri assieme a quelli di Genovae Monfalcone. Dire “cantieri navali” e dire “Cosenza” è esprimere un’unica realtà perché la vita di Saul si è svolta all’insegna di due stelle guida (che poi coincidevano): l’amore filiale, viscerale per la “sua” azienda e quello peri lavoratori, la classe operaia in genere e, quindi, per il partito e l’ideologia che li rappresetava identificandovisi: il partito comunista, fondato da Antonio Gramsci nel 1921, quattro anni prima della nascita di Saul. Ho detto (anzi, lo dice l’autore con queste piacevolissime pagine, palpitanti di vita e di storia) che siamo in presenza di una miriade di personaggi di vertice sia nella politica, sia nello Stato (uno per tutti: Giorgio Napolitano), citati non per contestualizzare soltanto, come ogni buon giornalista sa e deve fare, ma perché, compresi gli avversari, erano compagni, amici, estimatori di Saul, tant’è vero che furono tutti presenti alle sue esequie il 12 gennaio 1981, a neanche due mesi dal tremendo terremoto che squassò la Campania.
In questo “debito” di coscienza e di riconoscenza di Matteo verso il padre (ma anche lui finisce per chiamarlo “il compagno Saul”) si può ravvisare – volendo – un riferimento letterario illustre: Orazio, uno dei sommi della letteratura latina e di tutti i tempi. Egli, infatti, non scrisse solo a mo’ di epitaffio quel bellissimo carme che comincia così: “Exegi monumentam aere perennius”, cioè (ti)ho eretto un monumento ben più duraturo del bronzo (Odi, III, 30,1), ma nell’intera raccolta dei Carmina (cioè le Odi) c’è l’esaltazione dei temi morali cari al poeta, che resistono alle offese del tempo molto di più dei monumenti che possono rompersi, sgretolarsi, sparire un po’ alla volta, come Pompei, ahi noi.
Ma ispirarsi ad Orazio, il poeta che elogiava la parsimonia, definendola aurea, la mens aequa (l’equilibri interiore), il carpe diem, cioè la necessità de la ricerca e del saggio uso oggi della virtù, è una dichiarazione d’intenti di Matteo Cosenza sulle virtù paterne, paragonabili a quelle attribuite da Orazio a uomini onesti e probi che, come il papà, (era un liberto) sanno trasmettere, appunto, ai propri figli e a chiunque voglia crescere in maniera sana e virtuosa, i valori giusti. Ed infatti il compagno Saul ci viene subito presentato in tutta la schietta fragranza umana. Padre e marito affettuosissimo, si può davvero dire di lui che fu interamente dedito alla famiglia e al lavoro. Sullo sfondo-sempre e comunque -sta la sua limpida fede, la sua militanza politica. Nonostante il suo titolo di studio fosse la quinta elementare, fece parte del Comitato centrale del PCI, nel quale i compagni intellettuali (a cominciare da Berlinguer) ascoltavano e seguivano con la massima attenzione le sue parole e i suoi giudizi. Pur non potendo vantare ascendenze nobiliari, il compagno Saul nobile lo fu per indole, per predestinazione, per natura,perché questa dote gli veniva dalla nobiltà dei sentimenti con i quali si misurava e misurava fatti, persone, circostanze, mondo dell’imprenditoria, del lavoro, della politica.
Ed era “elegante” nei modi, nell’apparenza, nel tratto, nelle scelte di vita. Il figlio Matteo, senza mai essere affettato, questi tratti paterni li va elencando nei primi otto dei nove capitoli che costituiscono il libro, e spesso al lettore capita di imbattersi una seconda, una terza volta ed anche di più in un medesimo aspetto caratteriale e comportamentale del protagonista: non è né un errore, né una svista, né una ripetizione: è dovuto alla coerenza, al senso d’inusitata (anche per quel tempo, oltreché peri nostri) onestà e distacco dalla sete del successo, dall’arrivismo, dal delirio di potenza. E pensare che gli era stato più e più volte offerto (persino pregato dai vertici del partito!) di diventare deputato o senatore nel collegio importantissimo stabiese per contrastare lo strapotere dei Gava democristiani! ‘1,a, mia vita è tra il popolo, con i miei compagni, dentro il cantiere navale (Castellamare”, aveva sempre risposto. Era passato del tempo, infatti, e Castellamare non era più la “Stalingrado del Sud”. Ecco perché Saul non solo rispondeva negativamente alle sollecitazioni del partito di lasciare la sezione del PCI e passare ad altri ed alti compiti, ma anche a quella del management aziendale che, pure, voleva promuoverlo ad incarichi di responsabilità in considerazione della stima e della profonda conoscenza del mondo della cantieristica, fornitori inclusi.
I tempi erano cambiati, ho detto. L’armonia, oggi diciamo delle “larghe intese”, era stata sacrificata a concezioni sovranazionali (la posizione della Chiesa, con la scomunica comunque operante dal 1947, la guerra fredda, i blocchi contrapposti) dei quali i nostri politici dovevano prendere atto. Eppur vero che qua e là, poi, a prevalere sull’irriducibilità delle posizioni, subentrava una sorta di “rnedialità”, alquanto populista, alla Guareschi per capirci (la serie di libri di successo, anche grazie alle trasposizioni cinematografiche imperniate su Don Camillo e Peppone, prete manesco il primo e sindaco massiccio e rosso di un paese della “bassa”il secondo). E poi si erano affacciati altri grossi problemi (anni Sessanta e, soprattutto, Settanta): mentre il paese cresceva, le tracce di “quella” Italia dei Padri costituenti scompariva.
Quello che restava era il persistere di intollerabili squilibri sociali ed economici (terreno di cultura della tragica follia del terrorismo), tra cui l’accumulo di un enorme debito pubblico, mai più recuperato e con la consueta e conseguente penalizzazione dei redditi fissi: impiegati, operai e pensionati. A fronte di tutto ciò (e non è certo poco!) la gente viveva la sensazione di un diffuso sistema di corruzione, di favoritismi, clientelismo, inefficienze, collusioni tra poteri dello Stato (con i ‘Servizi” deviati) e le organizzazioni malavitose di stampo mafioso (di lì a poco verrà la stagione dei delitti eccellenti). No, il compagno Saul deve restare nel suo cantiere, tra i suoi compagni, a difendere il posto di lavoro di tutti, anche di chi al cantiere non lavora. Viene fuori il concetto tutto suo, tutto particolare della proprietà: la fabbrica è per Saul “come la terra per Prometeo”(p. 81). Era comunista per tante ragioni e credeva davvero che la proprietà privata non dovesse esserci.
Era comunista non per il domani di là venire [. . ]ma lo era nella pratica della vita, anche in quel rapporto con la casa -e non solo- non sua, ma che diventava sua perché la utilizzava vivendoci dentro”(p. 114). Nella stessa logica i cantieri erano dei lavoratori, dei calafati, quelli che tagliano il ferro con una macchina che pesa quasi un quintale, che poteva far male davvero: ne sa qualcosa Saul che perse un occhio per una scaglia. Pietro Ingrao in visita a Castellamare aveva detto in un comizio elettorale (ma le elezioni le vinsero i Gava): «Noi abbiamo un solo esercito, è quello che voi oggi rappresentate qui con le vostre tute blu» (p. 82). Di questo “esercito” fece sempre parte il compagno Saul, irremovibile nelle sue convinzioni e nella sua fede.
In tema di religione, pur non interessandosene, non si oppone mai alle sollecitazioni ed alle richieste della moglie, per esempio, di far cresimare i due figlioli. Saul non ce l’aveva con la fede cattolica: solo non sopportava che la Chiesa avesse fatto una scelta radicale di campo, per cui invece di unire la gente la spaccava a metà. Sapeva con acume individuare errori e limiti altrui, però altrettanto faceva con sé medesimo, come nel caso delle elezioni amministrative del 1977, irrimediabilmente perse. Ebbene, a Bassolino, – segretario regionale – che comunque non era venuto a “chiedere qualche testa, Saul disse chiaro e tondo: “Io sono l’unico responsabile di questa sconfitta. Ho sbagliato e ne rispondo”(p . 99). Pensando a quanto accade nell’agone politico oggi (e anche.. . ieri) viene da riflettere, perché ad ogni tornata elettorale non c’è mai, ma che dico uno di qualsiasi schieramento, capace di dire: “Abbiamo perso.

Di  Mons. Vincenzo Bertolone
Arcivescovo di Catanzaro

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