Gabriele D’Annunzio, poeta, guerriero e diplomatico ai tempi dell’impresa fiumana (Storiaglocale.com)

di Armando Pepe, del 8 Novembre 2022

Un libro che va ben al di là del titolo è “D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume”, di Eugenio Di Rienzo, appena edito da Rubbettino. L’incipit è propedeutico, a ragion veduta, alle 939 pagine, compreso l’indice dei nomi, in quanto l’Autore afferma: «passa un anno, passa l’altro e la storiografia sul D’Annunzio fiumano continua ad aggirarsi, con una certa monotonia, nel cerchio stretto di due vessate interpretazioni. Da una parte si persevera a sostenere che in quell’impresa il Poeta impersonò il ruolo di “inventore del fascismo”, secondo la definizione coniata da Carlo Sforza nel 1944, che affermò, imbrogliando le carte, di non aver mai intrattenuto rapporti con il Comandante di Fiume. Dall’altra, invece, ci si ostina a bruciare incenso al figurino di un D’Annunzio democratico, libertario, socialisteggiante e addirittura bolscevizzante che, con la promulgazione della Carta del Carnaro, avrebbe creato un modello politico del tutto originale e del tutto incompatibile sia con il regime liberale, socialmente e politicamente conservatore, sia con quello partorito dalle “leggi fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926, poi perfezionato durante l’intero arco temporale del “ventennio nero”» (p. 7). Ebbene, Di Rienzo cerca di essere, riuscendoci, ecumenico, onnicomprensivo, multi-prospettico, grandangolare, poiché non rimastica il già detto, ma offre alla platea di lettori appassionati alle imprese del Vate nuova conoscenza di fatti e dettagli. Con il mordente polemico, suo congeniale tratto distintivo, Di Rienzo si sofferma su punti che, scivolando lestamente sulla nota biografica, si inseriscono nel mare magnum della vicenda di Fiume, ove, in meno di due anni successe di tutto. Ci si diede, ad opera di D’Annunzio e dei suoi seguaci, una costituzione, oltre che audaci regole di vita, cartamoneta, euforia. «D’Annunzio, intanto, per scansare l’impaccio di ogni formalità giuridica, con un discorso alla piazza, composta in larga prevalenza dai suoi miliziani, pronunziato sempre l’8 settembre 1920, ottenne un entusiastico quanto scontato consenso alla erezione dello “Stato libero di Fiume”, da lui proclamato quattro giorni dopo, interpretando la vox populi come un vero e proprio plebiscito. Lo stesso era accaduto per la Carta del Carnaro, anch’essa promulgata l’8 settembre, che costituiva la struttura istituzionale della Reggenza. Il 30 agosto, il Vate promosse, infatti, un’adunata popolare, chiedendo e ottenendo il sanzionamento per acclamazione del Disegno di un nuovo ordinamento dello Stato libero di Fiume. […] E il 31 agosto presentò la Costituzione fiumana ai Legionari che- come avrebbe ricordato Giovanni Comisso- “l’approvarono senza comprenderne il significato, schiavi come erano del fascino della carismatica personalità di D’Annunzio, novella Calipso, che ancora li conquideva» (p. 24)». Tra innumerevoli vicissitudini, colpi di scena sempre dietro l’angolo e proiezioni in avanti, D’Annunzio seppe dirimersi con abilità, credendo fortemente all’appartenenza storicamente italiana delle terre marittime adriatiche, che un tempo furono della Repubblica di Venezia. Agendo contro le mene, intricate e a volte doppiogiochiste del governo Nitti, da lui spregiativamente definito come “Cagoia”, D’Annunzio seppe, dimostrandolo nei fatti, tener testa ai vari oppositori, nonché intrecciare utili rapporti con chi ne comprendeva l’acume politico, non comune. A difesa di quella costa adriatica, bagnata di sangue italiano, «il 14 novembre 1919 avveniva, infatti, lo storico incontro tra “il signore di guerra” di Zara [l’ammiraglio Enrico Millo di Casalgiate], e quello di Fiume [Gabriele D’Annunzio], salpato dal “porto dell’amore” (per usare il titolo del romanzo-reportage sui 476 giorni dell’epopea dannunziana, redatta da Giovanni Comisso), alla mezzanotte del giorno precedente, insieme a Giuriati, Host Venturi, Rizzo, Reina, Keller e il figlio di Cesare Battisti, Luigi, a bordo del cacciatorpediniere “Francesco Nullo”» (p. 479). Non era altro che un patto tra gentiluomini, ed eroi, per preservare l’italianità di quelle terre, un connotato, se si vuole anche nazionalistico, ma che affondava le proprie radici nell’antichità. Siccome gli accordi internazionali remavano contro gli intenti dannunziani-, e Di Rienzo con citazioni lunghe se non lunghissime, che arricchiscono la base probatoria dell’imponente volume, lo dimostra benissimo, l’impresa fiumana doveva volgere alla fine, nonostante i propositi anteriori, materiati di giuramenti e frasi solenni, che sarebbero rimaste nella propaganda del regime fascista, a perenne memoria. Ad indurlo a desistere, con una infuocata e veemente missiva, ci pensò anche il vecchio amico Maffeo Pantaleoni, economista di fama mondiale, ministro delle finanze della Reggenza Italiana del Carnaro, il quale «minacciava il Vate di pronunciare il definitivo deponere amicitiam e annunciava la prossima partenza da Fiume. […] Che vuoi infine? L’annessione. La chiedi perché sai che ora non la puoi avere senza che Governo e Parlamento, e con ciò l’Italia, manchino di parola; senza soffrire una rivoluzione all’interno; senza avere pure una guerra con la Serbia, in cui l’Italia apparirebbe quale apparve l’Austria-Ungheria nel 1914. La Reggenza! Ma tu sai bene che, con i confini che gli vorresti dare, sarebbe la sommersione in marca slava dell’isolotto italiano e che perciò i Fiumani non la vogliono. E tu sai bene anche che quella Reggenza non venne mai approvata, se non vuoi chiamare approvazione le grida di una folla che non capisce e che riunita in piazza o in teatro, era ipnotizzata da te, che allora eri per essa il salvatore dall’Intesa e dai filibustieri americani. [..] Lo studio pacato, che conduce a preparare l’annessione, dopo un periodo di autonomia, […], questo studio, che è pure preparato da altri, non ha la tua cooperazione, non ti interessa perché contrasta con i tuoi obiettivi rodomonteschi. Te ne rendi conto? O soggiaci come un Imperatore romano dei tempi della decadenza, un tirannello di repubblica greco-sicula, un principotto medioevale ora all’una ora all’altra combriccola di favoriti? Io ti ho parlato con franchezza estrema» (pp. 856-857). Una parresia che sicuramente non incontrò il favore del Vate, il quale, sin dai precordi delle sue gesta, eroiche e drammatiche, sapeva che gli slavi, riuniti in un nuovo regno dopo la sconfitta dell’Impero austro-ungarico e che sia apprestavano a fare la parte del leone nella spartizione dei territori di quest’ultimo, erano stati acerrimi nemici degli italiani, senza risparmio di efferatezze e crudeltà. Pressato dalle necessità, convinto con la forza delle armi terrestri, agli ordini del generale Enrico Caviglia, e navali, comandate dall’ammiraglio Diego Simonetti, il regime fiumano smobilitò e D’Annunzio si ritirò nel buen retiro sul Lago Di Garda, dove fu prodigo per sempre di regali e di pura e disinteressata generosità nei confronti dei suoi legionari (le cui biografie minori se non minime, per quelli che provenivano esclusivamente dalla Campania, si possono rintracciare nel portale https://storiadellacampania.wikidot.com/dblfc:start