Conversazione di Giorgio Bonomi con Sergio Cavallerin (magazineart.net)

del 11 Settembre 2019

Sergio Cavallerin

La dinamica dei segni

a cura di Giorgio Bonomi

G. B.: Prima di cominciare la nostra conversazione, vorrei chiarire il senso di questo titolo. “Dinamica” nel suo significato originario, cioè nella lingua greca antica, significava “forza”, “movimento”, “sviluppo”, tutte caratteristiche che si ritrovano nel tuo lavoro nel quale possiamo vedere i “segni”, le immagini che si “muovono”, correndo o nuotando sulla superficie, e che hanno una notevole “forza”, espressiva e icastica; sempre rinnovandosi in uno “sviluppo” rigoroso.
E veniamo a noi: tu nasci, nel mondo dell’illustrazione e dintorni, come disegnatore e poi come editore e distributore di fumetti (italiani e stranieri), settore in cui hai raggiunto risultati eccelsi. Contemporaneamente hai voluto frequentare l’arte, quella più “tradizionale”; per intenderci, quella di Picasso o Duchamp. Qual è stata la spinta che ti ha portato a navigare nell’arte?
 
S. C.: Vorrei definirmi onnivoro di tutto ciò che è arte, immagine. Mi sono sempre sentito immerso nell’arte nella sua forma più ampia, navigando – per mantenere i tuoi termini – in tutti i suoi aspetti.
La costruzione della mia esistenza è questa, amare l’arte e inchinarsi ad essa in quanto forza motrice della mia vita. Noi siamo al mondo per cambiare noi stessi e tentare di modificare quello che è al mondo.
Ciò che mi ha sempre catturato è poterlo fare attraverso l’arte, divulgando la mia o quella di altri colleghi artisti.
Creare opere d’arte o contribuire alla loro divulgazione, per me, è la risposta più naturale al bisogno che sento dentro.  “È qualcosa che brucia in petto”, è un bisogno da esaudire. L’arte come malattia e non come terapia. Tra una villa al mare o un viaggio sulla luna, io sarò sempre costretto, per soddisfare me stesso e ciò che ho dentro, a scegliere l’arte. Più che di una spinta parlerei di una vocazione. Ho sempre disegnato, fin dai primi anni di vita e non ho ancora smesso.
È un bisogno da esaudire che mi ha portato a farne lo scopo della mia vita.

G. B.: Hai iniziato concentrandoti su diversi filoni per poi arrivare ad altri, meglio definiti, dove più forte è il tuo segno artistico e la tua originalità estetica. Penso, anzitutto, ai Polimeri[1] nei quali “dissemini” – e mi pento di non averti inserito nel mio saggio La disseminazione. Esplosione, frammentazione e dislocazione nell’arte contemporanea, Rubbettino editore, Catanzaro 2009 – figure. Tra queste poi poni un elemento in relazione con esse, ad esempio un amo tra tanti pesciolini, un martello tra tante falci e così via, poi come titolo fai un’interrogazione allo spettatore: Dove è l’amo ?, Dove è il martello?. Questa è una serie che presenta varie caratteristiche e qualità: l’ironia, la pregevole esecuzione tecnica – nel disegno, nelle cromie, nella composizione – e l’invito alla partecipazione dell’osservatore come voleva una parte dell’arte del secondo Novecento, cioè la partecipazione del visitatore all’opera per renderla “completa”, o attraverso l’ingresso del corpo nell’opera stessa o con l’accensione di un interruttore per avviare i meccanismi dell’opera o con altre modalità.
Allora: qual è il significato dei Polimeri nel tuo percorso e come scegli i soggetti da rappresentare?

S. C.: Il significato io penso stia nella natura dell’uomo. In un celebre libro, divenuto poi anche film, Così parlò Zarathustra, c’è un monologo bellissimo che definisce le persone di dubbio, ovvero quelle che si fanno domande e pensano, come le più belle.
I miei Polimeri sono delle provocazioni e toccano, a volte drammaticamente – come la Pop insegna –, i temi più significativi e scomodi della società. Voglio portare il fruitore alla ricerca di una risposta che io rappresento con un particolare nascosto realizzato in argento o oro. Hai citato Dov’è il martello?: in una distesa immensa di falci, oggi il martello, dopo la caduta del muro, dopo la disgregazione dell’URSS, dopo la sparizione dell’idea socialista e la morte di Berlinguer non lo troviamo più, ed esattamente come immagino uno spettatore davanti al mio quadro, dobbiamo sforzarci per cercare quel piccolo particolare in argento, ciò che ci rimane. Ecco quindi che questa ricerca diviene il percorso da seguire, nella vita e nell’arte. Tuttavia i Polimeri possono “tradire” la loro natura ed ecco che il particolare scompare. È il caso di Dov’è la bomba intelligente? Questo termine che ci hanno propinato per anni e che non significa assolutamente nulla e quindi la ricerchiamo invano perché lì il particolare non c’è!
Mi torna in mente anche la mia opera Dov’è la via d’uscita? Vediamo tutte queste frecce, dove ognuna di esse rappresenta una strada materiale come ad esempio il sesso, i soldi ed il potere e seguiamo tutte le loro direzioni ma non raggiungiamo mai la nostra serenità. Invece, l’unica freccia “reale”, quella in argento, è quella che vorrei indicasse il proprio Shangrilà /zen che ognuno di noi porta dentro e a cui anela consciamente o inconsciamente. Diviene così un augurio affinché la ricerca della propria “via d’uscita” possa avvenire nel più breve tempo possibile, tenendo a mente come la nostra serenità passi da quella del nostro prossimo.

 
G. B.: Un’altra serie di tuoi lavori che presenta una grande qualità estetica è quella delle “estroflessioni”[2], nelle quali rappresenti loghi di massa (ad esempio Facebook) o personaggi dei fumetti. Queste opere si caratterizzano per la ripresa, in un contesto e in un discorso affatto diverso, di quella modalità espressiva che nasce con i Gobbi di Alberto Burri e poi si è sviluppata con Agostino Bonalumi ed altri.
In più il colore, monocromo, rigorosamente lucido e lucente, non solo è intrigante, ma dà anche alle “superfici dinamiche”, come ti piace chiamarle, un particolare fascino. E non posso non ricordare tutta quella “corrente” di artisti che, soprattutto negli anni Settanta, eseguivano opere solo monocrome.
Due domande: perché “dinamiche” e perché la “rinuncia” alla pluralità dei colori?
 
S. C.: A differenza della tela piatta, queste ultime mie opere, creano una dinamicità di movimenti ed immagini. L’orientamento delle luci sulle mie superfici le modifica totalmente. Sembra quasi che si tratti di molteplici opere racchiuse in una. La monocromia non è proprio una rinuncia bensì diviene un’esaltazione di quella tonalità che concentra lo spettatore sulla forma figurativa, l’opportunità di entrare appieno nell’opera e capirne il simbolo. Per la prima volta quindi abbiamo delle vere e proprie estroflessioni Pop.
 
G. B.: I tuoi ultimi dipinti si chiamano Passaggi interdimensionali dove appare evidenziata la geometria, quella dell’arte astratta classica, e una sorta di costruttività architettonica, nei quali con discrezione, timidamente, appare una piccola figura di un personaggio dei fumetti. Da dove nasce questa serie?
 
S. C.: Diciamo che questi lavori partono da lontano per la fascinazione che ha avuto sempre su di me la metafisica ed il surreale, prima con Max Ernst e  poi con Magritte e De Chirico. Per quanto mi riguarda partono dalla fisica quantistica e da come la cosiddetta “Teoria delle stringhe” abbia posto, negli anni, le basi per poter credere che esistano universi coesistenti fuori del nostro spazio-tempo, spesso denominati dimensioni parallele.
In queste dimensioni parallele abbiamo relegato i nostri eroi, riducendoli alla loro unica dimensione di personaggi di intrattenimento, dimenticandoci di come loro potrebbero essere qualcosa in più, qualcosa che noi andiamo a disturbare, nel nostro egoismo, per portarli a fare ciò che noi vogliamo.
Nell’opera Quantum, per esempio, vediamo Paperino sconsolato perché noi lo stiamo richiamando nel nostro mondo, dove lui è povero, sfigato e “vittima” di Zio Paperone e delle provocazioni di Gastone. Noi, egoisticamente, lo costringiamo a vivere, costretto in una storia a fumetti, le sue storie nel nostro mondo che era bellissimo ma che ogni giorno contribuiamo a peggiorare.
Ho voluto quindi fermare il tempo e ritrarre il momento nel quale loro corrono verso di noi per indossare la maschera che gli abbiamo attribuito.
 La strada che loro percorrono è il passaggio che immagino e che cerco di imprimere su tela, rappresentando il loro viaggio tra linee e colori. Ma soprattutto ponendo delle domande tra le quali: “Siamo sicuri della nostra dimensione?”.
 
G. B.: Recentemente, come oramai ci hai abituato da anni, fai un ulteriore scatto nel tuo percorso nel quale è assai difficile trovare una fermata, una stasi.
Penso agli ultimi lavori con la luce, o intorno alla superficie o dietro di essa. Questo nuovo modo di esprimerti, senza togliere nulla ai lavori precedenti – che, tra l’altro, continui a fare – aggiungono un fascino particolare alle figure rappresentate, aggiungendo un’auraticità maggiore e una complessità più intensa.
Cosa ti ha portato a questa, se mi passi il gioco di parole, “illuminazione”?
 
S. C.: Da Caravaggio ad Hopper, passando per il nostro Morandi, penso che la luce abbia avuto sempre un ruolo fondamentale. Nelle mie opere anche la luce è Pop e ciò a cui sono più legato è il simbolismo che cela. Amo la luce e nel mio lavoro cerco di elevarla per la sua importanza, facendola divenire un elemento essenziale dell’opera o addirittura l’opera stessa.
 
G. B.: Per esaurire questa breve carrellata sui tuoi lavori, parlaci delle sculture, genere su cui non ti sei molto cimentato, ma che riprendono i temi a te cari, sempre con le caratteristiche della tua poetica, l’ironia, la chiarezza di messaggio, l’ottima esecuzione materiale.
 
S. C.: Adoro la tridimensionalità, penso che essa infatti riesca a portare il suo messaggio all’interno della nostra dimensione quotidiana in maniera più immediata e più efficace. Penso ad esempio al mio Wolverine, di dimensioni umane, che squarcia la tela con le sue lunghe lame in adamantio facendo il verso a Fontana con i suoi tagli: è una suggestione bellissima e profonda nella quale lo spettatore può sentirsi completamente immerso. Wolverine diviene un nostro simile, è lì con noi…accanto a noi.
 
G. B.: Mi piace soffermarmi un momento su un aspetto che percorre tutto il tuo lavoro come un filo rosso, lavoro che, pur nelle differenze, si è sempre svolto in modo rigoroso, senza nulla concedere al facile e all’accattivante: questo filo è costituito dal rapporto che c’è tra la tua poetica e quella della Pop art, dato che questa, oltre agli altri riferimenti storico-artistici già ricordati, è una tua costante. Sbaglierebbe, però, chi si fermasse a questa constatazione, rimanendo alla superficie dell’interpretazione, infatti se iniziarono i Dadaisti a portare nelle gallerie gli oggetti d’uso comune, i ready-made, fu poi la Pop art ad esporre nelle gallerie e nei musei le immagini degli oggetti comuni, pensa alle scatole Brillo o alla lattina Campbell’s Soup di Andy Wahrol o ai fumetti di Roy Lichtenstein. Tu, però, non ti limiti alla rappresentazione di immagini massificate, ma con il disegno, con il colore e con la composizione nobiliti, rendi “belli” quei soggetti. Così se non è stato mai chiaro se la Pop art criticasse la nascente società dei consumi o se invece ne fosse, se non proprio l’esaltazione, almeno l’apprezzamento e la condivisione, tu superi il dilemma, vale a dire non poni il problema in questi termini, ma ti preoccupi di trasformare segni e figure di una società di massa che accetta tutto senza riflessione in oggetti di “piacere dell’occhio e della mente”. 
Nelle tue opere poi, oltre a questo aspetto di ricerca della “bellezza”, c’è anche spessissimo l’ironia. Un’ironia benevola ma mai accondiscendente, cioè mostri uno spirito critico non distruttivo bensì teso al dialogo e al convincimento consapevole. E, in questo, non esito a dire che il tuo lavoro, dietro alle apparenze ludiche, ha un notevole impatto etico, oltre che estetico.
S. C.: Ritengo l’ironia un mio mezzo espressivo molto importante per poter recapitare il mio messaggio allo spettatore finale. Denuncio, un po’ come faceva Dario Fo,  i temi sui quali vorrei si ponesse l’attenzione collettiva, in modo ironico non con il  fine di scioccare lo spettatore ma per portarlo ad una riflessione ed allo stesso tempo intrattenendolo piacevolmente.
 
G. B.: In occasione di questa mostra hai costruito una grande installazione, Yellow Submarine, che ha un duplice significato: da un lato è un omaggio a quel grande gruppo musicale costituito dai Beatles e a uno dei loro maggiori successi, da cui fu tratto anche un film d’animazione, e qui torniamo nel tuo ambiente; da un altro lato, questa installazione si presenta come denuncia politico-sociale, infatti il sottomarino è situato in una larga vasca d’acqua riempita di bottiglie di plastica e di rifiuti data la scarsa sensibilità ed educazione di molti contemporanei.
È questo, forse, un segno che ti avvii a realizzare opere più impegnate, “engagés” come si diceva nei caffè parigini degli anni ’50?
 
S. C.:  Beh in realtà io penso, un po’ come sosteneva Pier Paolo Pasolini, che l’arte debba sempre avere un ruolo di critica sociale. Ruolo che può essere di segno diverso a seconda dell’artista ma che deve comunque sempre contribuire al cambiamento della società e non semplicemente a ritrarla così com’è.
Su questo punto penso anche io che l’arte Pop si sia sempre presentata con una sorta di doppia faccia. Da un lato troviamo l’estetica, pensiamo quindi ad opere pressoché perfette e ritratte proprio per la loro perfezione e il loro divenire simboli universali nell’immaginario collettivo delle persone. Dall’altro lato troviamo la critica sociale, ovvero quel tentativo di smuovere le coscienze verso i temi più delicati. In questo caso partiamo dagli anni ’50 appunto, e da un mondo che i quattro di Liverpool immaginavano migliore.
Ora, dopo anni ed anni, tornano col loro celebre sottomarino e ciò che ritrovano è la condizione in cui versano i nostri mari. L’acqua, l’elemento madre della nostra terra, viene deturpata da noi e dalla nostra società. Il mare è diventato di plastica!
Penso quindi che l’arte Pop, in quanto popolare, sia il mezzo perfetto e di ampio respiro per raggiungere le coscienze di tutti sensibilizzandoli.
Non potevo quindi esimermi dal ricondurre la mia arte al suo scopo, quello di contribuire al raggiungimento di una societ&
grave; migliore. Già Dostoevskij ne L’Idiota ci insegnava come l’arte e la bellezza salveranno il mondo. I Beatles dopotutto, seguivano questa linea: l’arte di ampio respiro, pop, come mezzo attraverso il quale produrre una società più giusta composta da eguali. 

  

[1] Sui Polimeri ho scritto La disseminazione del segno, catalogo della mostra presso la Galleria Varart, Firenze 2011; cfr. anche Luca Beatrice, Chi cerca trova: Polimeri di Sergio Cavallerin, catalogo della mostra presso la Galleria Contemporanea, Pescara, 2007.
 
[2] Su questi lavori ho scritto Monocromi estroflessi, nel catalogo della mostra Superfici dinamiche, presso Spazio 40 Galleria, Roma 2017.

Altre Rassegne