L’amicizia di Pirandello (Cronache del Garantista)

di Maria Teresa D'Agostino, del 11 Marzo 2015

Da Cronache del Garantista dell’11 marzo

“Scritti su Pirandello” di Corrado Alvaro (introduzione e testo critico di Alessio Giannanti), edito da Rubbettino nella collana “Studi e testi alvariani” diretta da Aldo Maria Morace (presidente della Fondazione Alvaro), abbraccia un arco temporale di oltre trent’anni – dal primo incontro tra i due grandi letterati, nel 1923, fino alla morte dello scrittore di San Luca, nel 1956 – e comprende il testo più celebre della serie, la cosiddetta “Prefazione” alle “Novelle per un anno”. Contributi saggistici, scritti d’occasione, cronache teatrali, interviste. Alvaro è interessato a tutta la produzione artistica di Pirandello. Il fascino di queste pagine risiede nella visione ravvicinata e in una frequentazione intima; ed esse, più che restituirci il rigore di una definizione o uno scavo esegetico, toccano corde più profonde e ci offrono un ritratto dell’uomo Pirandello, verso cui, con l’incombere degli anni, Alvaro proietta la propria crescente malinconia.
La prima volta che vidi Pirandello fu in un villino intorno alla via Nomentana (non quello dove è terminata la sua vita e che aveva già prima abitato passandovi anni di grande lavoro e dove era tornato quattro anni fa); da quel primo incontro sono passati sedici anni; Pirandello tornava dai successi d’America e aveva comprato un grande tappeto di Smirne. Questo tappeto, turchino e rosso mi fece una grande impressione e fu uno dei pochi lussi che io gli vidi. Per quanto egli fosse stato ricco e allora fosse agiato, questo tappeto rappresentava il suo nuovo incontro con la fortuna. Esso contrastava con quanto aveva accompagnato il Maestro nella sua vita di lavoro che erano mobili di noce sul gusto della fine del secolo scorso, come poteva averne un borghese colto ed agiato e un professore: una scranna di tipo Savonarola col profilo di Savonarola scolpito sullo schienale, scaffali ornati con un fregio Rinascimento. Questi scaffali allora contenevano libri in ordine e foderati con diligenza. Ultimamente questi libri erano tutti sossopra, e inutili, come se tutti i libri fossero stati letti al modo che dice Mallarmé. Ora questo tappeto ci stava per caso, e non significava niente di decorativo e di estetizzante c’era per la necessità di avere qualcosa di caldo e di soffice sotto i piedi. Io me lo ricordo ancora come l’aurora di un’epoca grande ben vissuta e ben lavorata per questo ha tanta importanza nel mio ricordo. E Pirandello stava seduto tra i suoi amici contento come era contento lui quando gli era riuscito bene un lavoro. Nello stesso atteggiamento lo ricordo quando tornò dal Premio Nobel. Era come se fosse cominciata una buona stagione.
Tra i mobili il suo tavolo da lavoro, che fu quello di sempre, era troppo alto la sedia bassissima e per quanto egli fosse di bella statura non immaginavo come ci potesse stare a lavorare. Poi lo vidi qualche volta: stava come un ragazzo davanti a un banco troppo alto, il piano del tavolo gli arrivava alle ascelle: doveva star su con le spalle. Forse questo atteggiarsi nel lavoro lungo diede al suo portamento quell’impressione di raccolto in su, un’impressione di albero. Lavorava con la sua calligrafia onesta, precisa, ottocentesca, di cui amava certe maiuscole molto belle ed ariose come la P del suo stesso cognome. Insomma a cercare negli oggetti intorno a lui e in lui stesso un solo indizio delle audacie di cui era capace in arte, era tempo perduto, o almeno tempo per fantasticargli vicino.
Ma il suo vero lusso era un vaso greco trovato in un campo di Agrigento veramente bello, e che dopo essere rimasto intatto centinaia d’anni nel sodo della terra si sciupava ora all’azione dell’aria. Egli ne parlava spesso gli dispiaceva di vederlo deperire. Ne parlava come del suo paese, il solo di cui gli abbia sentito rammentare luoghi, aspetti, ore, e sì che aveva viaggiato parecchio mondo. Il suo patriottismo era proprio da greco o direi da meridionale se ancora non si sapesse bene come sia atteggiato lo spirito meridionale. Quella balza, quel colle, quella valle, quella campagna, quel mare. Dei greci non aveva il senso della natura altro che per questo, e il mondo lo vide da pellegrino. Me lo ricordo così anche all’estero. Gli uomini lo interessavano. Già del suo paese ricordava precisamente i colori, i caratteri, le avventure. E allo stesso modo ricordava gli uomini d’ogni altra parte del mondo. Mi pareva alle volte di capire il suo segreto per iscoprirvi che è poi il segreto dell’arte sua. Da buon pellegrino tutto il mondo per lui era paese e dunque non si affidava a nessun sentimento di stupore, o a nessun pregiudizio di razze: egli scorgeva le passioni dominanti, invariabilmente le stesse, quelle poche e forti proprie dell’uomo. Così misurava.
Dei suoi viaggi non gli sentii nessun ricordo di paese, molti sugli uomini. E di costoro non ebbi mai impressione che parlassero un’altra lingua. Egli riduceva tutti al medesimo linguaggio, che era la misura morale.
Arrivava perciò all’arte da una strada tutta sua e da reazioni umane, di carattere di moralità come un antico. Era tutto e niente altro che uomo. Mai uomo di lettere.
Era come un pellegrino, ma orgogliosamente italiano come per l’emigrante, dalla civiltà alla cucina il suo era il più grande e nobile paese del mondo.
Non cercava eccitanti nei libri e difatti non cercava libri nuovi se non quelli che gli arrivavano. Questi leggeva quasi tutti cercando la rivelazione di un artista.
Ultimamente era tornato ai grandi scrittori, stava con Boccaccio e Shakespeare. Un giorno a proposito di una novella di Boccaccio, la VII dell’Ottava giornata a sentirgliela riesumare mi parve cosa nuova: il nucleo drammatico il carattere, il conflitto, venivano fuori come in una vicenda senza tempo. Allo studente che si vendica della vedova crudele aggiungeva parole e moti e svolgimenti suoi prendendo piacere a mettersi nell’animo dell’uno o dell’altra.
Per poco non divennero il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’onesto e il disonesto.
Tutti i personaggi riusciti diventavano, per lui altri personaggi, uno si trasformava in tutti a formare la vita folta ed avventurosa. Leggeva attentamente, rigorosamente, come se alla fine volesse rendersi conto dell’inviolabile segreto dell’arte. Credo che l’arte gli apparisse ormai come troppo poco un mezzo niente altro che umano. Ma di questo ebbi timore di chiedergliene.

di Maria Teresa D’Agostino

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