A che punto è la notte della filosofia… di Donatella Di Cesare (quotidianodigela.it)

di Marco Trainito, del 11 Dicembre 2018

Gela. Uscito il 25 ottobre scorso presso Bollati Boringhieri, il pamphlet politico-filosofico dal forte timbro speculativo di Donatella Di Cesare, intitolato “Sulla vocazione politica della filosofia”, non può lasciare indifferente il lettore; al contrario, lo chiama in causa in prima persona e lo invita a domandarsi da che parte sta, a registrare la propria posizione dentro la (presunta) notte del mondo dominato dal neocapitalismo ed eventualmente a reagire. Difendendo infatti con grande pathos teoretico ed esistenziale una posizione precisa e netta, la Di Cesare non è tenera con chi ha scelto magari di collocarsi altrove. Poiché Eraclito ha dichiarato che chi si sottrae alla ragione del mondo che ci accomuna nell’esercizio pubblico, vigile, politico e alla luce del giorno dell’intelligenza è un dormiente preda dei propri sogni privati, ovvero del proprio “particulare”, costui è anche etimologicamente un idiota, dal momento che «“idiótes” deriva da “ídios”, proprio», una parola che «in greco rinvia alla proprietà». Come si può già intuire, nel dispositivo retorico di questo testo l’archeologia linguistica in stile heideggeriano, coadiuvata da un periodare spesso involuto, metaforico e oracolare, prende non di rado il posto dell’argomentazione razionale e circostanziata.
La tesi di fondo sostenuta dalla Di Cesare, tolte talune enunciazioni rigorosamente oscure tipiche dello stile cosiddetto “continentale” degli epigoni di Heidegger, è insieme semplice e nobile. La filosofia deve risvegliarsi e tornare nella pòlis, memore delle sconfitte che ha collezionato nei suoi tentativi passati di sporcarsi le mani con la politica e comunque consapevole di essere depositaria di un destino che la vede già da sempre distaccata, fuori luogo, “atopica”. Incompatibile con il dominio totalitario del presente politico-economico che si spaccia per natura intrascendibile, la filosofia dovrà anarchicamente, cioè senza alcuna velleità di dominio, tornare ad opporre all’“immanenza satura del globo” generata dalla “notte del capitale” l’intrinseca apertura allo stupore carico di speranza e al non-ancora del possibile utopico e ucronico che caratterizza il suo domandare inesausto e inevaso sin dalle origini.
La storia dell’amore difficile tra filosofia e politica è nota e la sua tragedia si consuma quasi subito. Lo scontro tra Talete e, potremmo dire, l’opinione pubblica di Mileto (si pensi all’aneddoto della servetta tracia riferito da Platone e all’aneddoto dei frantoi riferito da Aristotele) e la tensione tra Eraclito e i democratici di Efeso culminano nel martirio “legale” di Socrate, condannato a morte nell’Atene democratica uscita a pezzi dalla guerra del Peloponneso. Sconvolto da questo esito tragico dell’incontro della filosofia con la politica, Platone creerà lo schema futuro della loro difficile convivenza, con la prima che si autoesilia in città nel chiuso dell’Accademia, coltivando un sapere verticale refrattario alle contaminazioni con l’orizzontalità della prassi. Circa venticinque secoli dopo, quando con Heidegger la filosofia proverà a risvegliarsi estaticamente dentro un nuovo ordine politico, troverà il nazismo e precipiterà nell’errore più catastrofico della sua storia.
L’immagine della filosofia che viene difesa nel pamphlet è quella di un’avventura intellettuale-esistenziale che per sua natura è volta più al domandare radicale che alla soluzione di problemi. Mentre quest’ultima è demandata alla scienza, destinata a procedere in linea retta di cosa in cosa in un “sonno ontico”, la filosofia mette in questione non solo i presupposti infondati della scienza ma persino i propri presupposti, ri-flettendo, cioè reindirizzando il proprio cammino verso l’interiorità stessa del domandante, fino a sconquassarne l’esistenza («si può chiamare ri-flessione questa virata, un’inversione di rotta che risveglia dal sonno ontico»; e «quando si pensa», si legge molte pagine dopo, «ne va ogni volta della propria esistenza»). Tale radicalità del procedere filosofico può allora essere assunta per buona e messa alla prova nell’incontro-scontro con questo testo, dal momento che anch’esso è pieno di presupposti che chiedono solo di essere interrogati e messi in questione.

Eraclito chi?
Il secondo capitolo del libro è dedicato a Eraclito, riletto come colui che incita alla “veglia” della partecipazione politica e teorizza una sorta di proto-comunitarismo o “comunismo originario”. Secondo la Di Cesare, che in ciò segue una precisa tradizione interpretativa, tutto il pensiero di Eraclito è politico, e la sua filosofia della natura è trascurabile. Chi pensa il contrario, magari seguendo Aristotele, si condanna a una lettura “fuorviante e riduttiva” di un filosofo che, anziché un qualsiasi “indagatore del cosmo”, voleva essere il “severo guardiano della città”. In tale prospettiva interpretativa Eraclito inaugura una linea di pensiero che, passando soprattutto per Platone e Marx, arriva fino ad Heidegger e oltre, e costituisce il modello da seguire per recuperare oggi l’autentica vocazione politica della filosofia. Non importa naturalmente soffermarsi troppo sui tratti specifici del pensiero di questi punti di riferimento: quello che conta è il loro aver insistito sulla necessità di dedicarsi a una “filosofia del risveglio” nella pòlis (le prime due delle tre epigrafi del libro, tratte da Heidegger e Platone, insistono proprio sulla “veglia” politica affidata ai filosofi).
Per una curiosa coincidenza, però, a Eraclito era dedicato anche il secondo capitolo di uno dei classici più celebri e controversi della filosofia politica del Novecento, cioè “La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper, mai citato dalla Di Cesare nel suo pamphlet. Ora, escludendo che tale silenzio possa essere casuale, è difficile non pensare che esso abbia un significato preciso, dal momento che la ricostruzione storico-concettuale di Popper costituisce un’alternativa radicale a quella della Di Cesare, o, per così dire dire, una sorta di confutazione preventiva. È ben noto, infatti, che per Popper la linea Eraclito-Platone-Hegel-Marx-Heidegger è quella nera dei “falsi profeti” e dei teorici del totalitarismo, insomma dei nostalgici del tribalismo antidemocratico della “società chiusa”. Nell’interpretazione di Popper, Eraclito è soprattutto un sommo filosofo della natura, il quale però in politica, sulla base di una forma larvale di storicismo cosmico-storico agganciato all’intuizione di una «inesorabile e immutabile ‘legge del destino’» (p. 32 dell’ediz. Armando 1973), rimpiangeva, contro i rivolgimenti democratici in atto, il ritorno ai privilegi delle antiche aristocrazie tribali (da cui pare discendesse).
Non si tratta qui di stabilire quale delle due interpretazioni di Eraclito sia la più attendibile. Più interessante è osservare la distorsione provocata nella ricostruzione della Di Cesare dalla totale assenza di Popper. Quando lei deve denunciare il recente mesto rientro della filosofia in città con il capo cosparso di cenere e nelle vesti dimesse di “ancilla democratiae”, il suo bersaglio polemico è Hannah Arendt, accusata di aver predisposto un dispositivo di discorso, un vero e proprio “blocco concettuale”, che costringe la filosofia, dissoltisi gli incubi dei due totalitarismi (quello nazista e quello stalinista), ad appiattirsi sul liberalismo e a svolgere il compito “indecoroso” di democratizzare la democrazia e difendere un astratto umanitarismo dentro la cornice intrascendibile del neocapitalismo. Come si vede, la Di Cesare ha difficoltà ad uscire dall’ambito dell’universo heideggeriano e a prendere in considerazione linee di pensiero radicalmente diverse, come se il pensiero liberale non avesse una sua storia indipendente dalle eresie dell’heideggerismo. Senza voler nulla togliere al ruolo svolto da “Le origini del totalitarismo” della Arendt, uscito nel 1951, sarebbe arduo sostenere che un testo come “La società aperta e i suoi nemici”, uscito una mezza dozzina di anni prima, non abbia inciso in alcun modo sulla diffusione dell’ideologia liberaldemocratica (che per la Di Cesare è una vera iattura per la filosofia) nel mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale e in marcia, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, verso la globalizzazione.

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