Una ragazza in volo tra Dostoevskij e Bresson (L'Osservatore Romano)

di Giovanni Cerro, del 26 Ottobre 2012

Da L’Osservatore Romano – 26 ottobre 2012
In un libro il confronto tra «La mite» (1876) e la sua riscrittura cinematografica (1969)

Nel novembre 1876, Dostoevskij pubblicò nel Diario di uno scrittore un racconto intitolato La mite. Nell’avvertenza, invitava i suoi lettori a immaginare che i pensieri di un uomo «costernato» fossero stati annotati in presa diretta da uno stenografo e in seguito rielaborati: un espediente che permetteva di far assumere una forma fantastica a una storia al sommo grado realistica.

Nella stanza dove giace il corpo ancora caldo della giovane moglie, gettatasi dalla finestra stringendo tra le mani un’icona raffigurante la Vergine col bambino, il proprietario di un banco di pegni ripercorre in un monologo interiore la loro relazione tormentata – l’incontro, il matrimonio, i primi litigi, la gelosia. E lo fa interrogandosi sulle ragioni che hanno spinto la donna alla decisione fatale. Anche se è ipotizzabile un riferimento a un episodio de L’adolescente, a ispirare la trama erano stati principalmente due fatti di cronaca. Dostoevskij aveva, infatti, appreso del suicidio di Liza, la figlia dello scrittore e politico russo Aleksandr Herzen che nel dicembre 1875 si era avvelenata, vinta dai tormenti d’amore e dal difficile rapporto con la madre.

Alla stessa sorte era andata incontro, quasi un anno dopo, una sartina da poco emigrata a Pietroburgo: la mancanza di lavoro l’aveva spinta a buttarsi dalla finestra, portando con sé un’immagine sacra. Due storie all’apparenza simili, ma di cui Dostoevskij aveva già intuito nell’articolo Due suicidi le profonde differenze: dal provocatorio biglietto d’addio lasciato da Liza, in cui chiedeva di brindare se il suo tentativo fosse fallito, traspariva un senso di «sfida, forse indignazione, odio». Al contrario, quello della sarta era «un suicidio mite, umile». In ogni caso – scriveva Dostoevskij – la morte rimaneva un mistero insondabile: «Noi conosciamo solo quel che si vede ed è evidente; Inizio e fine sono per l’uomo ancora qualcosa di fantastico». Quasi un secolo dopo, il regista francese Robert Bresson decise di proporre una lettura de La mite, realizzando così il suo primo film a colori… Scelse Guy Frangin per la parte; dell’usuraio e Dominique Sanda, modella diciottenne alla prima esperienza da attrice, per il ruolo della mite. Pur rimanendo sostanzialmente fedele al racconto, spostò l’ambientazione nella Parigi della fine degli anni Sessanta, trasformò il soliloquio dell’usuraio in una confessione alla domestica, descrisse la mite come una donna colta e sostituì l’icona della Vergine con un crocefisso.

Presentato al festival di San Sebastian nel 1969, Così bella, così dolce (in originale Une fèmme douce), pur ottenendo la Conchiglia d’argento, non riscosse grande successo. Al confronto tra La mite e la riscrittura cinematografica di Bresson è dedicato un recente volume a cura di Francesco Bono, Luigi Cimmino e Giorgio Pangaro (Così bella così dolce. Dalle pagine di Dostoevskij al film di Bresson, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pagine 221, euro 14).

L’antologia raccoglie tredici contributi, che offrono punti di vista molto diversi tra loro, ed è arricchita da una bibliografia sul film redatta da Gianni Sarro. Il saggio d’apertura, di Bono e Sarro, ricostruisce la contrastata accoglienza che i critici italiani riservarono all’opera di Bresson: mentre alcuni la acclamarono come un capolavoro, altri accusarono il regista di aver ignorato la situazione sociale e politica della Francia contemporanea, realizzando un film di maniera. Evidentemente avevano travisato lo stile di Bresson capace di coniugare rigore e complessità, come scrive Giorgio Tinazzi.

Fedele al motto «niente di troppo, niente che manchi», la pellicola è tanto spoglia a livello formale, al punto da ricordare a Francesco Torchia il teatro povero di Grotowski, quanto disseminata di particolari significativi. Al «sistema della parola» di Dostoevskij, Bresson ha sostituito una trama di oggetti e gesti (René Prédal, Cimmino) che, anziché chiarire nella loro sovrabbondanza le ragioni del suicidio della mite, ne infittiscono il mistero (Luciano de Giusti).

Ad alimentare l’enigma contribuiscono la decisione di Bresson di non indagare la psicologia dei personaggi, di annullare quasi del tutto il loro passato e di mettere in questione il tradizionale linguaggio cinematografico (Daniele Dottorini).

Il film sembra descrivere la ribellione della mite in modo più deciso rispetto al racconto: mentre Dostoevskij approfondisce la dialettica tra desiderio di amore e di controllo (Claudia Zanardi), Bresson rende la contrapposizione tra i due protagonisti

anche attraverso l’organizzazione dello spazio e del movimento (Claudia Criveller). Non è da escludere, come sostiene Roberto Salizzoni, che su questa originale caratterizzazione della figura femminile possa aver influito la lettura di uno dei maggiori interpreti di Dostoevskij, il filosofo Nikolaj A. Berdjaev. Tuttavia, già nel racconto, simile per coinvolgimento a una confessione (Pangaro), la docilità della mite conviveva con l’insofferenza nei confronti dell’universo sociale ed economico del marito (Gabriella Elina Imposti). In questo senso, emblematico è il fatto che la ragazza si uccida tenendo tra le mani proprio l’icona che gli aveva dato in pegno in uno dei loro primi incontri. Un gesto liberatorio, che d’altra parte segna il fallimento del processo di conversione religiosa dell’uomo (Gilfredo Marengo).

All’usuraio di Dostoevskij e Bresson non resta che fare l conti con la propria solitudine. Tra qualche ora una bara bianca lo priverà per sempre anche della sola vista di sua moglie: «No, sul serio, quando domani la porteranno via, che sarà di me?».

Di Giovanni Cerro

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