Mio padre Carlo Rambaldi (Calabria Ora)

del 5 Giugno 2013

Da Calabria Ora del 2 giugno 2013

Ricco di notizie, racconti e aneddoti, “Carlo Rambaldi, una vita straordinaria” di Victor Rambaldi, il libro da poco edito da Rubbettino nella prestigiosa collana “Cinema”, è un appassionato e appassionante ricordo del grande maestro della cinematografia planetaria. La biografia, scritta dal figlio in terza persona quasi a volerne rimarcare la determinazione a non cadere nell’agiografico, ripercorrere le tappe salienti di una carriera che lo ha portato sul tetto del mondo e nondimeno svela il Rambaldi intimo. Dall’adolescenza tra le nebbie padane – per il giovane Carlo cariche di intuizioni e sogni – alle opere del periodo romano, fino all’approdo in una Hollywood che per lui davvero fece ponti d’oro. Victor Rambaldi racconta, con l’ausilio di un corposo corredo fotografico, l’ideazione e la creazione di figure immortali come King Kong, E.T., e tutti gli altri magici “esseri” cui Rambaldi diede non solo fattezze strabilianti, ma soprattutto innestò in loro vitalità e sentimenti, coinvolgendo e commuovendo intere generazioni. Figure capaci di ammaliare lo spettatore ancora oggi, nell’era della tecnologia digitale dove gli effetti speciali sono affidati al computer, ma non hanno il calore che solo il “creatore” Rambaldi sapeva infondere in quei “pupazzi” meccanici come il gigantesco gorilla o il buffo extraterrestre. Artista geniale, Carlo Rambaldi ha firmato le più importanti produzioni di un’epoca cinematografica irripetibile. Il figlio Victor, che dal padre ha ereditato la grande passione per il cinema e per il fantastico, lo racconta da osservatore privilegiato, portandoci a conoscere il “mago” Rambaldi mentre medita sui suoi bozzetti e mentre, finalmente, dà vita alla sua creatura, in un imperdibile “dietro le quinte” denso di dettagliate ricostruzioni ed emozionanti ricordi.
Settembre 1982. In un cinema di Città del Messico è in corso la proiezione di un film destinato a diventare uno dei blockbuster di tutti i tempi. Si tratta di E.T.- l’extraterrestre, diretto da un grande di Hollywood, Steven Spielberg. La pellicola, uscita in giugno, è un successo istantaneo mondiale. (….) Carlo ancora non lo sa ma il biennio 1981-82 sarà il più importante della sua straordinaria carriera e della sua vita personale e professionale. E.T., il protagonista del leggendario film di Steven Spielberg, lo innalza laddove nessun costruttore di creature era mai arrivato. (….) Si ritrovano in laboratorio. Appena entrato, Spielberg è attratto da un enorme poster al muro: la Creazione di Adamo, affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina. Adamo, nel sollevarsi da terra, tende un braccio verso Dio che, a sua volta, gli porge la mano destra. Come una folgorazione, nella mente di Spielberg prende forma il futuro poster del film. Ma circa l’aspetto del piccolo alieno, Spielberg è in alto mare. Dev’essere un «bambino-vecchio », di età indefinibile, molto innocente e soprattutto vulnerabile. Al contempo deve arrivare da un pianeta molto avanzato dal punto di vista tecnologico, possedere qualità telepatiche, essere anche buffo, curioso e un pochino goffo. (…) Carlo si mette al lavoro. Quanta intuizione psicologica deve esserci nella sua mente? Spielberg si è appena confessato con lui, e lui deve ora trovare la soluzione, in linguaggio cinematografico. Deve inventare il suo salvatore, entrare nella sua immaginazione infantile per ricreare l’amichetto perfetto che Spielberg sognava giungesse a redimere la sua vita. (…) Carlo disegna alcuni bozzetti ma li trova insoddisfacenti. Un giorno sta osservando il gatto di casa, un bellissimo himalayano femmina di nome Chicca, sua passione, ed ecco l’Idea. Il felino, incrocio tra un persiano e un siamese, ha il muso un po’ schiacciato nel quale brillano due occhi azzurro-blu magnetici, esprimenti tutta l’innocenza distaccata tipica dei gatti, animali che, all’opposto dei cani, conservano una spiccatissima personalità propria, misteriosa e riservata, un po’ da extraterrestre (non a caso adorati come divinità dagli antichi egizi). Carlo lo fotografa da ogni angolatura e inizia a sperimentare facendo dei bozzetti. Mantenendo la linea periferica della testa, sposta gli occhi lateralmente, alzando e arrotondando il naso per allinearlo ad essi. Elimina ovviamente le orecchie e allunga marcatamente il cranio in avanti, per esplorare l’ambiente che lo circonda, ispirazione, questa, tratta dal dipinto Donne del Delta, del 1952. In seguito sviluppa in modo marcato la muscolatura intorno agli occhi per conferire la più vasta gamma di espressioni. Infine, aggiunge le rughe inserite in un aspetto infantile, per integrare l’idea di «bambino- vecchio» vulnerabile che Spielberg si portava dentro, senza che nessuno gliela avesse mai saputa disegnare. Invece Carlo completa un autentico identikit in cui il regista si rispecchierà. (…) Attraverso bozzetti dettagliatissimi, Carlo crea ogni possibile espressione facciale dell’extra-terrestre, alla ricerca di sentimenti per un volto che non ha un corrispettivo in natura, e non è mai stato concepito prima. Invita di nuovo Spielberg nel suo laboratorio e gli mostra il modellino, alto circa trenta centimetri, in gesso.
Il regista rimane allibito. Quella creatura che gli sta davanti corrisponde esattamente al suo immaginario di bambino, anzi, in un modo tale che neanche lui avrebbe saputo disegnarlo meglio. Subito intuisce che il personaggio ha enormi potenzialità. È carismatico, innocente, indifeso, e sembra avere il cuore più grande del mondo. Risponde a tutte le specifiche che lui aveva chiesto per il film. È già una favola stare lì a guardarlo. Spielberg, emozionato, incita Carlo a proseguire il lavoro.

Vigarano Mainarda, nella Pianura Padana, a pochi chilometri da Ferrara, “un pugno di case senza pretese, dall’apparenza ingenua, timida e quasi fiabesca”. È nato qui, il 15 settembre 1925, Carlo Rambaldi, da Valentino, il miglior meccanico del paese, e Maria Taionini, la bellissima figlia del sarto. Un piccolo borgo che, nella poetica descrizione del figlio Victor, già ci porta dentro quell’aura di magia che ha illuminato l’eccezionale percorso artistico del maestro del cinema mondiale. E lì che Carlo, ancora adolescente, attende la pioggia per strappare la creta alla sabbia sugli argini del fiume nei periodi di crisi; è lì che nel 1935 assiste alla proiezione di King Kong – per lui come una folgorazione – e «sente nell’animo il desiderio di potersi dedicare all’animazione di personaggi con tutto se stesso». È lì che ha conosciuto Bruna, compagna di una vita. E da lì parte l’affascinante racconto di un Rambaldi inedito nel ricordo di Victor, regista e sceneggiatore, cresciuto tra le mille fascinazioni di un universo fantastico, quello di un cinema capace di atterrire, commuovere e divertire senza gli artifizi del digitale ma con la tecnica e la passione. Quelle che poi davano vita al “movimento”: uno sguardo, una piega delle labbra, l’alzarsi di un braccio. La vitalità trasfusa nell’inanimato. «È il movimento a creare emozione», diceva Rambaldi. «Quando, da bambino, visitavo il suo laboratorio, lo vedevo sempre assorto, sigaretta fumante in bocca, a studiare un progetto meccanico, a modellare qualcosa o a costruire le leve di un marchingegno usando il cartoncino – racconta Victor, autore del saggio “Carlo Rambaldi, una vita straordinaria” per Rubbettino editore -. Qualsiasi problema era già risolto nella sua mente, e, quando si trattava di spiegarlo a qualche suo collaboratore, si spazientiva se questi non capiva immediatamente. Era di buon umore di rado, sempre concentrato sul prossimo progetto, consapevole di avere un’enorme responsabilità nei riguardi del produttore, ma anche dello stesso film e quindi degli spettatori che andavano a vederlo. Non c’erano scappatoie sulla qualità dell’effetto. Doveva essere perfetto».
La carriera di Rambaldi ha avuto due grandi periodi, quello italiano (1957-1975) e quello americano (1975-1997). Come sono stati gli inizi?
«Il periodo italiano è stata la sua palestra. Tutto il lavoro fatto per oltre 50 film realizzati in Italia gli ha conferito l’esperienza necessaria a creare poi i futuri capolavori, King Kong, Alien ma soprattutto E.T., l’extraterrestre. Purtroppo i produttori italiani non lo apprezzavano. Sapevano che era l’unico, a Roma, a risolvere determinati effetti speciali in maniera stupefacente, ma la maggior parte di loro – come spesso accade – voleva avere innanzitutto il ritorno economico sull’investimento iniziale. Questo, quasi sempre, si basava sulla possibilità di avere nei film nomi di grande richiamo (come Mastroianni, Manfredi, Tognazzi, Loren) più che sulla bontà dell’effetto in sé. Per quasi tutti i film girati in Italia, il suo nome non compare nemmeno nei titoli di coda. Aggiungo, inoltre, che il produttore italiano si rivolgeva a mio padre a film quasi ultimato, riservando per i “trucchi” i rimasugli di un budget andato interamente al cast artistico e al regista. Mio padre, comunque, riusciva a dare al film molto di più di quello che il budget avrebbe consentito».
E del passaggio da Cinecittà a Hollywood cosa diceva?
«Era felicissimo. Capiva che il suo lavoro avrebbe preso una nuova fisionomia negli Stati Uniti. Dal punto di vista lavorativo, era un altro pianeta. Innanzitutto, budget di gran lunga maggiori, ma non perché si sprecassero i soldi, anzi, al contrario ogni effetto doveva avere il suo budget adeguato per una strategia di mercato assolutamente logica: se il budget è adeguato, la qualità intrinseca ne beneficerà, contribuendo così in maniera più marcata al successo del film. Dal punto di vista umano, gli americani dimostravano stima infinita nei suoi confronti. Quando il Servizio dell’Immigrazione gli conferì la residenza ufficiale nello stato della California, la motivazione fu: “Carlo Rambaldi è considerato un cittadino utile al progresso tecnologico della nazione”».
Parliamo dei capolavori: King Kong, Alien, E.T.
«Tre problemi difficilissimi da risolvere, tre responsabilità enormi sulle spalle. Per King Kong e per E.T, inoltre, mio padre dovette compiere un vero e proprio salvataggio, sia per Dino De Laurentiis che per Steven Spieglberg. Entrambi avevano commissionato gli effetti ai migliori di Hollywood, ma i prototipi non funzionavano ed erano concettualmente sbagliati. L’esperienza su E.T. è stata particolarmente eclatante, considerato l’enorme successo mondiale. Nessuno, all’inizio, ci credeva, nemmeno la Columbia, che lo rifiutò e il progetto poi passò alla Universal».
Tre Oscar vinti, qualcosa di “stratosferico”, per stare in tema. Come li ha vissuti Rambaldi?
«Quando si vince un Oscar, l’esperienza è talmente incredibile da sembrare un sogno. Quando se ne vincono tre in sei anni non ci sono parole per descrivere le emozioni che si provano: vuol dire essere arrivati in cima al mondo nella propria professione, vuol dire essere il numero uno a livello mondiale e oltre non è possibile andare».
Una carriera incredibile, dove pure non è mancata qualche amarezza.
«Per moltissimi anni mio padre ha coltivato il sogno di realizzare il vero Pinocchio cinematografico. Aveva infatti preparato ben 90 tavole a colori, narrando graficamente le avventure del burattino. Negli anni ’70 partecipò alla realizzazione di un meraviglioso prototipo capace di fare tutte le azioni richieste nella storia di Collodi. La produzione però decise di accantonarlo, adducendo argomentazioni discutibili, come ad esempio che costava troppo, ignorandone le grandi potenzialità. Mio padre soffrì moltissimo, lamentando il fatto che regista e produttore non avevano capito che un effetto speciale di quel calibro meritava molta più considerazione e non solo un mero calcolo economico. Ma erano altri tempi. Fu un’enorme opportunità mancata. Ora, però, con Rubbettino stiamo lavorando a una bella iniziativa: la pubblicazione di questi disegni originali in edizione pregiata per il Natale 2014. Era uno dei sogni di mio padre».
Le vostre strade professionali si sono pure unite per un momento.
«Io ho scelto un campo diverso dal suo, pur lavorando sempre nel cinema. Con mio padre ho condiviso l’amore per l’immaginazione e la creatività, nonché per l’arte, soprattutto la pittura, la scultura e la musica. Lavorare insieme a lui era una continua sfida, giocavamo a chi “ne sapeva di più” su alcuni argomenti, anche tecnici, come ad esempio la fotografia. Parlando lo stesso linguaggio, ci si capiva con uno sguardo. Lui collaborò con me nei miei primi due film (Il bersaglio e Yorhad) realizzando, ovviamente, gli effetti speciali. Sempre pronto e disponibile, fossi io il regista o Steven Spielberg, per lui era uguale. Sempre grande professionalità, lealtà e altruismo, i tratti distintivi della sua vita».
Articolo e intervista di Maria Teresa D’Agostino

Altre Rassegne