Il romanzo di Cagliostro (Il Messaggero)

di Roberto Gervaso, del 16 Maggio 2013

Da Il Messaggero – 16 maggio 2013

Sul mago e “conte” Alessandro Cagliostro hanno scritto tanto (una biografia, anch’io), ma pochi hanno scritto più di Giuseppe Quatriglio, giornalista di lungo corso e concittadino del sedicente conte, al secolo Giuseppe Balsamo (Il romanzo di Cagliostro, Rubbettino Editore). Nato in uno dei quartieri più squallidi e diseredati della capitale siciliana, l’Albergaria, più precisamente Ballarò, nel 1743, ebbe una vita avventurosissima. Senz’arte né parte, ma non privo di nozioni alchemiche apprese nel convento-collegio di Caltagirone. Per sbarcare il lunario, cominciò a vivere d’espedienti in una metropoli senza leggi e senza regole, in balia di arbitri e soprusi, dove tutto era consentito a tutti, finché non s’incappava nelle reti degli sbirri. Giuseppe Balsamo era tarchiato, di colorito olivastro, le mascelle pesanti, gli occhi neri come ii carbone.

Maestro di truffe, ma non al punto di farla sempre franca, viveva ai margini della società. Prima di finire in galera fuggì e, dopo varie peregrinazioni, approdò a Roma, dove sposò la figlia quattordicenne di un fonditore di campane. Quatriglio, col piglio aneddotico del divulgatore, ne percorre le tappe: le scorribande per l’Europa, l’iniziazione massonica a Londra, dove si era guadagnato una certa fama indovinando i numeri della lotteria, la fondazione di un rito muratorio tutto suo, esotico e stravagante, che battezzò egiziano. Se ne mise a capo, assumendo il titolo di Gran Cofto e riservando alla moglie quello di Regina di Saba. Divenne amico di potenti, fra cui il cardinale Rohan, un libertino allocco e ricchissimo, cui carpì la buona fede e un mucchio di quattrini. Le pagine più interessanti di questo romanzo, che non è un romanzo, ma un dotto e agile saggio biografico, sono quelle dedicate agli incontri di Cagliostro con Casanova e con prelati della Curia romana. Con l’avventuriero veneziano, l’immortale autore di Storia della mia vita, meglio nota come “Memorie”, si vide due volte, nel 1769 (Alessandro aveva 26 anni, Giacomo 34) e nel 1778 . Si fiutarono e capirono di che pasta fossero fatti, anche se il primo era un semi-analfabeta e il secondo un uomo coltissimo, uno dei più colti del Settecento.

Un uomo che seppe tenere testa a Voltaire, conosceva a memoria l’Ariosto e il Tasso e aveva composto un’infinità di opere. Casanova, in uno dei colloqui con Cagliostro, gli consigliò di non mettere piede a Roma: «Se mi avesse creduto – commenterà – non sarebbe morto nella fortezza di San Leo». Nella capitale papalina regnava Pio VI, che detestava e temeva la massoneria. Il conte, già sofferente di lue, non più compos sui, in stato di patologica esaltazione, non si rendeva conto che la sua non era solo una missione impossibile, ma anche suicida. Gli efficientissimi agenti del Santo Ufficio, su ordine perentorio di Pio VI, arrestarono il mago e lo spedirono davanti al tribunale dell’Inquisizione. Che, dopo decine di udienze, gli inflisse la condanna capitale. Ma la misericordia della Chiesa, alfieressa del perdono, è infinita, e la sentenza estrema fu commutata nel carcere a vita. Da scontare nella rocca di San Leo, a un tiro di schioppo da San Marino. Il conte, mai stato tale non fu rinchiuso in una cella. Fu murato vivo. Era pieno di acciacchi e il carcere glieli esacerbò, propiziandone la follia. Nel 1795, a 52 anni, un colpo apoplettico lo stroncò, e il suo corpo fu sepolto in un luogo sconsacrato. C’è chi crede che Cagliostro, evaso da quella remota e inaccessibile galera, sia ancora in vita. Lasciamoglielo credere. Guai a contraddire i fanatici. Lo diventano sempre di più.

Di Roberto Gervaso

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