E Cinecittà impedì a Hollywood l’egemonia sull’immaginario (Libero Quotidiano)

di Giuliano Sorelli, del 13 Gennaio 2014

da Libero Quotidiano del 12 gennaio

“Cinema e storia” si chiama l’annuario che dal 2012 l’editore Rubbettino manda in libreria inaugurando così un confronto tra due forme di sapere a lungo trascurato. Spesso ci si è dimenticati che «l’immaginario è storia tanto quanto la Storia stessa. Questo è quanto scrive Marc Ferro nel suo Cinema e Storia, caposaldo delle prime indagini sulle due discipline che questa rivista intende tornare a fare dialogare nell’orizzonte di un comune interesse»: come l’immaginario influisca sulla realtà e di come questa lo rappresenti.
Se il numero del 2013, da poco uscito, porta su di sé l’onere di fotografare La Shoah nel cinema italiano (pp. 224, euro 16) quello dell’anno precedente, varo della rivista, si faceva carico degli Anni Ottanta: quando tutto cominciò (pp. 240, euro 16): un decennio di vistoso cambiamento durante il quale le mobilitazioni collettive segnano il passo a vantaggio degli slanci individualisti. Una trasformazione epocale che il cinema registra. Negli anni del disimpegno nasce infatti «un ethos, fatto di immaginario e di valori, prodotti allora più che mai da un singolare intreccio fra strutture materiali e dimensione simbolica. Tutti i Paesi occidentali accentuano infatti in tali anni il loro carattere di ‘società dello spettacolo’, con la televisione e il cinema che diffondono i propri codici e i propri linguaggi a tutti i livelli, dalla vita quotidiana al mondo politico». E il cinema davvero allora più che mai si rivela un «agente di storia», come si affretta ad annunciare nel suo intervento Pietro Cavallo, e dunque un agente di trasformazione politica? O forse allora succede qualcosa che svuoterà le sale e trasformerà il cinema in fenomeno residuale? «All’indomani della guerra Hollywood aveva tentato d’imporsi sugli schermi della penisola come già aveva fatto in Germania e in Giappone» scrive Pierre Sorlin «ma l’Italia aveva resistito efficacemente e, per molto tempo, più della metà degli incassi erano andati ai film italiani, e solo un terzo a quelli americani». Era il successo della strategia di Cinecittà, la fabbrica del cinema nazionale voluta dal Duce e difesa strenuamente dopo il 1945 da Andreotti, giovane sottosegretario allo spettacolo con delega al cinema nel primo governo repubblicano. Sia Mussolini sia il Divo Giulio comprendevano quale partita si giocasse nelle sale cinematografiche, ma sembra che dagli anni Ottanta se ne dimentichino tutti permettendo a E.T. e Rambo di conquistare le vette del box office. Ma qualcosa era inesorabilmente cambiato.
La partita per l’egemonia dell’immaginario non si giocava più nelle sale. E’ vero «da quel momento in poi quasi due terzi dei profitti andarono agli americani e solo un terzo agli italiani» ribadisce Sorlin «Tuttavia, le percentuali sono fallaci: per colpa del crollo dell’audience Hollywood, passata al primo posto, guadagnava meno di quando era in seconda posizione. Il mutamento era sconcertante, l’Italia, un paese che, per tre decenni, aveva fatto del cinema il suo divertimento principale, e delle sale un luogo d’incontri, virava bruscamente verso altre occupazioni». Il cinema ormai contava di meno. Gli anni Ottanta hanno visto l’affermarsi della televisione commerciale e della sua offerta di spettacoli che ha finito col distogliere cineasti e spettatori dal grande schermo. In più l’inizio del riflusso economico ha portato sempre più le gente a godersi i film sul divano di casa insieme agli amici. Così l’Italia, «turbata dalla decelerazione economica e dall’instabilità politica e oramai assuefatta alla televisione, non considerava più il cinema un’attività divertente, istruttiva, a buon mercato, ideale per intrattenere le famiglie». Nessuna novità giungeva dal buio delle sale cinematografiche. Tutto proveniva dal tubo catodico che troneggiava nei salotti e nelle cucine degli italiani. La sfida per l’immaginario non passava più dal cinema. Passava dai talk-shows e dagli intrattenimenti televisivi. Oggi ci avviciniamo a un’altra rivoluzione che finirà col detronizzare la tivù dal suo scranno e a passare lo scettro di «agenti di storia» a narrazioni che non passeranno né per il grande né per il piccolo schermo. Si dirà allora addio al cinema?

di Giuliano Sorelli

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