La ‘ndrangheta ha paura delle sue donne

del 10 Giugno 2013

Da D-La Repubblica del 10 giugno 2013

È dalle storie delle collaboratrici di giustizia che, nel 2012, ha inizio la ricerca di Angela Iantosca, giornalista, tra carte processuali, viaggi e interviste. Di una cosa è certa: le donne possono veramente distruggere la ‘ndrangheta da dentro. Perché, fuori, per loro c’è una cosa per cui vale la pena rischiare tutto: la libertà dei figli.
Angela Iantosca è nata a Latina nel ’78. “L’anno in cui è morto Peppino Impastato” precisa lei, da giornalista che ricorda date e fatti, specialmente quelli che l’hanno spinta a occuparsi, una volta cresciuta, di legalità. La intervistiamo mentre è in viaggio verso Sud. “Ti rispondo dalla Salerno- Reggio Calabria, dopo tre giorni di presentazioni piene di emozioni, in quei luoghi dove tutto è più difficile” dice. Inizia così la nostra intervista.

Le donne che decidono di parlare fanno tremare la ‘ndrangheta, è così?
Le donne possono davvero rappresentare il cambiamento. Il numero delle collaboratrici è ancora esiguo. Ma stanno dimostrando, solo con la parola, di saper scardinare una famiglia: Giuseppina Pesce sta smantellando il potentissimo clan di Rosarno.

Le donne collaborano per motivi diversi dagli uomini?
Per i figli, punto di forza e di debolezza. Rischiano la vita, pur di fargli condurre un’esistenza diversa dalla loro. I social network hanno un ruolo chiave: alcune hanno deciso di parlare dopo aver incontrato lì dei ragazzi che le hanno viste come persone, non oggetti.

Come sono le donne della ‘ndrangheta?
Sono le madri dei compagni di scuola dei nostri figli. Non immaginate solo donne vestite di nero: possono essere ragazze truccate e con lo smalto. La ‘ndrangheta ha sempre giocato sulla sottovalutazione, sul rimanere nell’ombra, e questo ha favorito la sua espansione.

Scrivi che non solo le ‘ndranghetiste hanno attività, anche al Nord, come negozi di abbigliamento, in cui riciclano il denaro sporco. Alcune sono giornaliste e insegnanti. Fa parte di una strategia di trasmissione dei valori malavitosi?
Non possiamo più immaginare la ‘ndrangheta come la mafia della coppola e della lupara ancorata alle montagne. Si è evoluta, ha studiato, si è inserita nei luoghi di potere.

Scrivi che ‘ndrangheta deriva dal greco anèr agathos, “uomo buono”: cosa c’è di buono nell’uomo di ‘ndrangheta?
È l’uomo di valore, figura rassicurante che protegge l’onore delle fanciulle, che interviene in caso di dispute, paladino della giustizia. Ma è solo una comoda rappresentazione. La mafia buona non esiste. Per onore un figlio può uccidere la madre, se, una volta vedova, si innamora. Per onore si lava con il sangue un tradimento e si uccidono bambini.

Che favole raccontano ai piccoli le mamme e le nonne della ‘ndrangheta?
Nella ‘ndrangheta, accanto a famiglie moderne, ci sono famiglie in cui si cantano le ninnananne che ricordano l’offesa ricevuta, alle bambine si insegna a cantare “viva la ‘ndrangheta viva la ‘ndrangheta” o a un figlio si ricorda che il tradimento della madre deve essere punito.

Qual è la “Calabria che non si può non amare” cui accenni nei ringraziamenti?
Quella di chi resta per cambiare le cose. Le donne cui sono stati strappati i genitori perché hanno detto “no” alla ‘ndrangheta o che hanno perso i padri sequestrati. Quella parte onesta che non gira la faccia dall’altra parte e che ogni giorno pratica la legalità.

Intervista di Ilaria Lonigro

Clicca qui per acquistare il libro con il 15% di sconto

Altre Rassegne