La parabola dell’Ulivo (Studi Cattolici)

di Ugo Finetti, del 23 Gennaio 2014

da Studi Cattolici del 23 gennaio

Nel dibattito che, ancora di recente, si è sviluppato sul tema di una rinnovata discesa in campo dei cattolici per porre rimedio alla loro irrilevanza in entrambi i poli è spesso mancata una riflessione sulle ragioni del dissolvimento che si sarebbe registrato. Infatti personalità che provengono dalla tradizione politica cattolica – o che a essa si richiamano – non mancano sulla scena e hanno anche svolto ruoli di primo piano a cominciare dai principali protagonisti, in un campo e nell’altro, dell’ultimo ventennio: da Romano Prodi a Silvio Berlusconi. È quindi molto utile la lettura del libro-conversazione di Gerardo Bianco con Nicola Guiso, La parabola dell’Ulivo. 1994-2000 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 322, 18 euro), in cui viene ricostruita quella che, nella postfazione, Piero Craveri definisce «la storia di una sconfitta». Gerardo Bianco che, dopo lo scioglimento della Dc, fu anche segretario del Partito popolare italiano, è un testimone prezioso che racconta motivazioni ideali e retroscena istituzionali. A segnare le tappe della «parabola» c’è Nicola Guiso con una serie di sintetiche – ma molto accurate ricostruzioni. Particolarmente illuminanti risultano anche l’apparato bibliografico e la documentazione – talora anche inedita con cui Guiso accompagna nelle note la rievocazione di Bianco. Nel clima di cosiddetta «antipolitica» spesso si indeboliscono la memoria e l’attenzione su fatti rilevanti e significativi e tutto sfuma in un generico «Ventennio» messo in blocco sul conto di Silvio Berlusconi e delle sue sempre fragili maggioranze. Ma, come vediamo in queste pagine, vicende di primaria importanza – come privatizzazioni, moneta unica, crescente debito pubblico ebbero la «firma» anche del centro-sinistra.
Che cosa minò l’esperienza dell’Ulivo? La ricostruzione di Guiso e la testimonianza di Bianco mettono a fuoco il dualismo che sin dall’inizio più che vivificarlo lo avvelenò: da un lato Romano Prodi (con Walter Veltroni) che puntava a farlo evolvere verso un partito unico sotto la leadership carismatica del capo del governo, e dall’altro Massimo D’Alema (con Franco Marini) che ne voleva uno sviluppo come sistema federativo. Una dialettica che divenne man mano contrapposizione fino a sfociare nella rottura della maggioranza con l’uscita di Fausto Bertinotti e la sfiducia, per un solo voto, di Prodi nonostante il soccorso della scissione operata da Armando Cossutta. Segue quindi l’iniziativa dell’ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, che fonda l’Unione democratici per la Repubblica (riesumando la sigla UDR dei francesi seguaci di De Gaulle). Una formazione che traslocando parlamentari da Berlusconi consente la nascita di un nuovo governo di centro-sinistra senza Rifondazione comunista. Ma è significativo come questa vicenda che vede protagonisti soprattutto ex democristiani – da Mastella a Buttiglione – abbia l’obiettivo finale di portare a Palazzo Chigi il leader dell’ex Pci (divenuto PDS e poi, pochi mesi prima, Ds). Cossiga nobilitò l’impresa motivandola come se egli avesse voluto concretizzare l’obiettivo di Aldo Moro di una «alternativa democratica» con un ex comunismo pienamente democratico e occidentale. A parte l’uso di una formula coniata da Palmiro Togliatti nel 1958 e il fatto che Aldo Moro (nei discorsi che fece alla Camera nel 1977 e ai parlamentari democristiani nel 1978) esprimeva altre idee, di certo anche quella esperienza di governo si concluse negativamente con D’Alema che gettò la spugna dopo la vittoria di Berlusconi nel voto delle regionali del 2000. Oggi l’eccezionale discesa in campo dell’ex Presidente della Repubblica appare soprattutto dettata dalla preoccupazione di Cossiga di garantire l’appoggio all’intervento in Kosovo che gli Stati uniti stavano preparando attraverso la NATO indipendentemente dall’ONu. Le basi italiane erano fondamentali per i bombardamenti nei pressi dell’Adriatico. Il risultato finale dell’esperienza di D’Alema, comunque la si interpreti, non fu tanto una «legittimazione» dell’ex Pci, ma la risurrezione di Berlusconi. Si giunge così all’ultimo capitolo con una sorta di «8 settembre» Giuliano Amato che porta la coalizione di centro-sinistra al giudizio degli elettori. Da qui l’epilogo con il trionfale ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi e il dissolversi del Partito popolare italiano nella Margherita che segna – scrive Piero Craveri – «la dispersione dell’originario nucleo politico dei cattolici». Quali le ragioni di fondo di tale «sconfitta» e «dispersione»? Le pagine di Bianco e Guiso offrono un disegno convincente. In sintesi vediamo le due anime fondatrici dell’Ulivo rinnegare tradizione e vocazione. Da un lato abbiamo Romano Prodi che intende far crescere la propria egemonia sull’intero Ulivo prendendo le distanze dalla tradizione politica dei cattolici italiani e cioè respingendo l’ombra della Democrazia cristiana, e dall’altro Massimo D’Alema che rifiuta categoricamente che l’abbandono del Pci abbia come sbocco il socialismo democratico europeo.del centro-sinistra: D’Alema in disparte e Prodi a Bruxelles, Veltroni che fugge dalle Botteghe Oscure per il Campidoglio, il sindaco di Roma -Francesco Rutelli – improvviso candidato premier e, di conseguenza, uno sereditato Giuliano Amato che porta la coalizione di centro-sinistra al giudizio degli elettori. Da qui l’epilogo con il trionfale ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi e il dissolversi del Partito popolare italiano nella Margherita che segna – scrive Piero Craveri – «la dispersione dell’originario nucleo politico dei cattolici». Quali le ragioni di fondo di tale «sconfitta» e «dispersione»? Le pagine di Bianco e Guiso offrono un disegno convincente. In sintesi vediamo le due anime fondatrici dell’Ulivo rinnegare tradizione e vocazione. Da un lato abbiamo Romano Prodi che intende far crescere la propria egemonia sull’intero Ulivo prendendo le distanze dalla tradizione politica dei cattolici italiani e cioè respingendo l’ombra della Democrazia cristiana, e dall’altro Massimo D’Alema che rifiuta categoricamente che l’abbandono del Pci abbia come sbocco il socialismo democratico europeo Ma, soprattutto, La parabola dell’Ulivo illumina le ragioni della «dispersione». Nell’Ulivo prevale una radicale soluzione di continuità con la Prima Repubblica. L’elettorato orfano del pentapartito finisce, quasi cacciato, muto «zoccolo duro» in un’area berlusconiana dove l’unica storia rispettata è quella del Movimento sociale italiano, mentre nel centro-sinistra si accredita solo quella del Partito comunista italiano con una crescente vulnerabilità alle pressioni di matrice sessantottina. La storia della Prima Repubblica – e in primis della Democrazia cristiana – viene sempre più rappresentata come una successione di fallimenti e di trame eversive: la mafia conseguenza dello sbarco americano, il terrorismo conseguenza dell’adesione alla NATO, la corruzione conseguenza dell’esclusione dei comunisti dal governo. In queste pagine vediamo come sulla base di affermazioni e tesi svolte da magistrati di Mani pulite e della Procura di Palermo si scrive così «la vera storia d’Italia» e cioè si accredita la tesi dell’esistenza in Italia di un «doppio Stato», formula coniata da studiosi tedeschi per descrivere il regime nazista e che ora viene usata, persino nei manuali scolastici, per spiegare il «regime democristiano».
Mentre Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti vengono abbandonati al loro destino e si elegge a modello Oscar Luigi Scalfaro (che lasciato il Quirinale diventa, appunto, presidente dell’INsMLI, tempio degli storici del «doppio Stato»), non si trova nell’àmbito dell’Ulivo – con Antonio Di Pietro che Prodi nomina ministro e D’Alema senatore – chi ponga argine al rigetto in blocco della storia italiana che ha avuto i cattolici come protagonisti politici. In quegli anni, ricorda Gerardo Bianco – con Prodi che alla guida della Commissione europea rifiuta l’appartenenza a partiti guidati da cattolici – i leader del Partito popolare europeo, da Kohl ad Aznar, preferiscono Silvio Berlusconi. Come possono trovare consenso popolare la presenza o la discesa in campo nel segno di essere cattolici se i precedenti vengono giudicati come un museo degli orrori? Se si accetta di convivere e di evitare polemica con chi dipinge la storia della Dc in termini di requisitoria, l’irrilevanza è una conseguenza inevitabile. Non si capisce, in questo quadro come si possa criticare la decisione della Chiesa di evitare appoggi diretti e controverse deleghe sulla scena politica riservandosi invece di scendere direttamente in campo quando si tratta di “temi sensibili”.

di Ugo Finetti

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