La storia dell’essenza umana smentita dalla Storia (il Manifesto)

di Paolo Ercolani, del 20 Luglio 2015

Da il Manifesto 17 Luglio

La modernità si configura come quella dimensione in cui risulta diviso ciò che in passato aveva rappresentato un’unità. Mondo divino e mondo umano, essere e dover essere, realtà e ideale sono distinti e su un piano di pari dignità. La città dell’uomo non è più un’emanazione in posizione subordinata della città di Dio, come voleva Sant’Agostino, mentre forieri di utopie e disgrazie si rivelano coloro che nei modi più diversi si illudono di portare il paradiso in terra. Quest’ultima, infatti, non rappresenta un terreno fertile per la moralità, ed è piuttosto abitata da individui la cui occupazione principale riguarda la ricerca del potere. In tal senso, il «realismo politico» si presenta come uno dei figli naturali della modernità. È attorno a questo percorso complesso e affascinante che si snodano due libri collettivi: Riflessioni storico-filosofiche sul «Principe» di Machiavelli, a cura di (raccolta curata da Ercole Erculei e Giorgio Grimaldi per Carocci, pp. 240, euro 25) e Il realismo politico (raccolta curata da Alessandro Campi e Stefano De Luca per Rubbettino, pp. 972, euro 28).
Una tematica vasta e complessa, che si può tentare di riassumere attraverso la vicenda intellettuale che intreccia Gramsci e Machiavelli. Due autori diversamente realisti.

Ottimismo antropologico
A fondamento della concezione del primo v’è certamente una considerazione positiva dell’essere umano, tanto da poter parlare di «ottimismo antropologico», che lo porta a riconoscere in ogni individuo la capacità, almeno allo stato potenziale, di elaborare il proprio »senso comune» e farlo progredire all’altezza della «volontà generale» di classe. L’uomo a cui si rivolge Gramsci, insomma, anche il più umile per condizione sociale e intellettuale, grazie alla mediazione degli intellettuali e del Partito è in grado di comprendere la propria condizione e interpretarla in un’ottica collettiva, di interesse generale delle classi sociali più povere e sottomesse.
Da qui dovrebbe partire la presa di coscienza delle masse sociali, che le spinge ad aderire al progetto e all’azione rivoluzionaria del partito comunista per dare vita finalmente alla società senza classi auspicata da Marx ed Engels. Se a questo aggiungiamo la lezione che secondo Gramsci ci avrebbe impartito Machiavelli, volta a smascherare l’ars dissimulandi che è propria di chi governa e ad incitare il popolo ad insorgere di conseguenza, magari senza troppi scrupoli etico-morali, il gioco sembrerebbe fatto.
Eppure le cose non sono andate così. Quel tribunale implacabile che è la storia ha emesso un verdetto che ha smentito con nettezza la visione idealistica di Gramsci. Con Hegel, che biasimava gli idealismi irenici di Kant, potremmo dire che «le chiacchiere ammutoliscono di fronte alle serie repliche della storia». Che un autore realista e spregiudicato come Gramsci sia caduto, in questo caso, in un idealismo di maniera, deriva probabilmente anche da una errata, o forzata, interpretazione della teoria di Machiavelli, da molti considerato il primo scienziato della politica moderna. Questi, infatti, si è tenuto ben lontano dall’idealismo tipico del filosofo, impiegando piuttosto il metodo realistico del politico per comprendere, e provare a guidare, le sorti della società umana.

L’eterna battaglia del potere
Quel metodo che, per intendersi, insegna che «le cose spesso non sono come sembrano», che l’attività politica non è volta a realizzare una presunta «essenza» umana distintiva, o a perseguire alcuni principi morali definitivi, né a preparare gli esseri umani in vista del loro destino eterno. Ma che, piuttosto, la politica ha a che fare sostanzialmente con il potere, perché essa non è altro che un’eterna battaglia per la distribuzione del potere stesso.
Tali presupposti conducono Machiavelli a elaborare una visione della politica che non solo evita accuratamente di appiattirsi, sulla morale, ma giustifica e benedice anche l’azione più cruenta (come l’omicidio) se essa si rivela il mezzo necessario per raggiungere uno scopo di natura politica.
Se infatti, per esempio, secondo il grande oratore latino Cicerone il primo re di Roma (Romolo), che aveva trucidato il fratello avanzando il pretesto della fondazione della città, era in realtà colpevole di avere violato la pietà e l’umanità, commettendo di fatto un peccato, significativamente differente ci si presenta l’interpretazione del segretario fiorentino.
Per il Machiavelli dei Discorsi, infatti, un’opinione come quella di Cicerone «sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto», poiché «mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria che per ordinare uno regno o constituire una repubblica usasse». In virtù di ciò per la morte di Remo e di Tito Tazio, Romolo merita piuttosto «scusa» e non «biasimo».
Proprio negli anni in cui Gramsci fraintendeva, o forzava, quello che era l’insegnamento realistico di Machiavelli, le masse popolari tributavano onori e consensi ai regimi dittatoriali ed erano ben lungi dall’aderire a ideali collettivi di rivoluzione ed emancipazione umana.
Trionfavano regimi autoritari fondati sul predominio di un capo unico e indiscusso e della sua ristretta schiera di burocrati e faccendieri. Il popolo, le masse di cui parlava Gramsci, ben lungi dal rivelarsi a guisa di «soggetti storici», erano stati ridotti a strumento passivo di consenso, a materiale umano utilizzabile per i disegni di potenza economica e militare. Né questo processo si è concluso con l’epoca dei conflitti mondiali.

La ricerca del profitto
Arrivando ai giorni nostri, un «Potere invisibile» (di cui parla, per esempio, Daniel Estulin) e apparentemente impersonale, quindi di cui è arduo scorgere la localizzazione precisa e anche gli individui che lo compongono, riesce ad imporre con chiarezza sibillina la sua piattaforma ideologica e programmatica: il neo-liberismo più spinto e incurante delle istanze politiche e di giustizia sociale, la ricerca spasmodica ed esclusiva del profitto, in nome del quale tutti gli stati sono chiamati non solo a sottomettersi ai diktat dei mercati, delle agenzie di rating e dell’Fmi, ma a riconfigurarsi del tutto fino ad assumere
la nuova identità di stati-mercato o stati imprese. In cui evidentemente gli abitanti non sono più cittadini depositari di diritti politici e sociali, ma soggetti consumanti e pedine di un ingranaggio i cui fini non hanno a che fare con il benessere diretto della popolazione.
Siamo all’interno di una forma di potere che, per quanto vicina agli intendimenti e ai suggerimenti di Machiavelli, si declina altresì in termini economici o comunque di utilità nei confronti di quelle agenzie che fanno capo all’alta finanza, in questo distanziandosi fortemente dalla visione del segretario fiorentino, per il quale i «danari» dovevano rappresentare semmai uno strumento in vista del bene superiore che era comunque politico.
L’epoca del realismo politico compiuto, insomma, la nostra. In seguito al presunto crollo delle ideologie, il potere effettivo è quello economico, assurto al rango dì pensiero unico senza neppure dover fingere di richiamarsi a chissà quali ideali o progetti di emancipazione umana. Logica della quantità e progresso infinito sono gli unici due fari consentiti.

Di Paolo Ercolani

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