Il ritorno di Gioacchino da Fiore (Itaca)

di Luna Renda, del 29 Luglio 2015

Da Itaca 29 Luglio

Siamo immersi nel pieno autunno del Medioevo, e in un paesino della Calabria, Celico, nasce, nel 1130 circa, Gioacchino da Fiore. Di origini probabilmente ebraiche, studia e lavora a Cosenza e successivamente presso la corte normanna di Palermo; dopo un viaggio rivelatore in Terrasanta, si dedica allo studio approfondito e costante
delle Sacre Scritture e dichiara al padre di voler servire Dio.
In molti hanno tentato di divulgare la parola “difficile” dell’austero monaco cistercense rifugiatosi sui monti della Sila, trasferendoci l’afflato mistico e profetico che Gioacchino ha donato ai tempi a lui contemporanei e successivi, ma il fatto di definirlo “attuale” costituisce l’anima della lettura nuova, appassionata e rigorosa di Massimo Iiritano (Gioacchino da Fiore, attualità di un profeta sconfitto, Rubbettino).
Nel libro pubblicato di recente – presentato in diverse librerie calabresi, gallerie d’arte e nel suggestivo scenario dell’abbazia di Corazzo, dove Gioacchino visse, fu eletto abate e si dedicò ai suoi studi – si avverte un messaggio ancora pulsante, una carica mistica attualizzabile e spendibile anche nei tempi moderni. Le tesi di Gioacchino, infatti, che già allora risuonavano audaci e che non potevano non tuonare come una condanna sia pure indiretta, delle implicazioni mondane della Chiesa, possono ancora oggi veicolare una svolta, una rivoluzione pacifica delle strutture rigide che non ammettono slanci, perché più si legge Gioacchino e più ci si accorge della valenza e potenzialità del suo pensiero nel mondo contemporaneo.
Dall’analisi storica del contesto che fa da sfondo all’opera dell’abate teologo, emerge un quadro affascinante di dominazioni ed orientamenti religiosi che si susseguono affastellandosi, stratificandosi, determinando modus vivendi e scelte di pensiero. La riflessione illuminante di Gioacchino scavalca i tempi e supera le divisioni. Una riflessione che godeva, come non sarebbe facile immaginare, anche dell’appoggio di alcuni papi dell’epoca, Urbano II e Celestino III, che lo incoraggiarono negli studi e riconobbero l’ordine florense. L’imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, volle addirittura concedergli un ampio possedimento sulle montagne calabresi, dove fu costruita quell’abbazia germe fecondo di altre numerosissime filiazioni: chiese, monasteri e abbazie, sparse in Italia e anche nelle più remote regioni d’Europa.
Nella ricerca estenuante e continua che lo conduceva anche lontano dai consueti doveri abbaziali si fa profeta e storiografo allo stesso tempo. Oltre ad avere un’impostazione eremitica e visionaria, infatti, egli si dedica a una disamina della storia dell’umanità e prefigura quello che sarà, alla luce dell’immanenza della Trinità, nella storia degli uomini. Dio per Gioacchino non ha creato il mondo che tende a lui come riferimento immobile, ma scende nelle vite umane e le accompagna per mano lungo il percorso accidentato che li attende.
La Terza aetas da lui prefigurata come via d’uscita dalle strettoie del suo tempo, avrebbe dovuto accogliere i cristiani traghettati in questo tempo emendato e purificato, scampati al naufragio del contrasto tra il potere spirituale e quello temporale, nonché alle divisioni tra cattolici, ortodossi ed ebrei. Elabora una lettura comune che senza soluzione di continuità parte dall’Antico per arrivare al Nuovo testamento da rivolgere, spiega Iiritano, alla plenitudo ecclesiae (a tutta la comunità ecclesiastica nel suo complesso). Se non è modernità questa, se non è attuale il messaggio di collaborazione, dialogo, accoglienza dell’altro! Cos’è l’anelito della terza età se non invito ad accogliere la croce quando si operano scelte politiche e morali? Successive alla sua morte arrivarono le prime critiche, le prime diffidenze della Sorbona di Parigi,il rigore di Tommaso d’Aquino che arriva a contestarlo, in particolare per la sua opera teologica De unitate seu essentia Trinitatis, che sfiora la condanna di eresia. Cresceva la diffidenza nei suoi confronti, ma parimenti aumentavano la sua fama, e il suo testamento spirituale, quella sua lezione severa di ritorno al messaggio originario contenuto nei Vangeli.
Questa tendenza fu accolta con favore dall’ala più rigorista dei francescani, quella degli spirituali (in contrapposizione ai conventuali) oltre che da alcuni intellettuali successivi e da esponenti politici del Due e del Trecento come Dante, Petrarca e Cola di Rienzo. Per Dante “il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato” (Dante Alighieri, Paradiso, canto XII, vv. 140-141), è un riferimento importante negli studi teologico-filosofici che accompagnano la stesura della Commedia, è Gioacchino che regala a Dante la possibilità di dire l’ineffabile, di raffigurare in parole il mistero della Trinità.
Nella profonda e chiara sussistenza / Dell’alto lume
parvemi tre giri / Di tre colori e d’una coerenza (Paradiso, Canto XXXIII vv. 115-117).
E ci riesce grazie all’altro canale comunicativo utilizzato da Gioacchino: quello delle figure. È questa infatti la modalità con cui riesce a sintetizzare e rappresentare i suoi studi e la sua esegesi della Bibbia, divulgando come era sua intenzione, un sapere elitario e solo apparentemente lontano dalla realtà, per indicare una via precisa all’umanità. Spiega Iiritano: “Nel Liber figurarum Dante trova così la forma dell’indicibile per rappresentare l’irrapresentabile: fino a dare alla stessa Trinità la figura dei tre cerchi gioachimiti”.
“Sconfitto” dunque, e neanche completamente, possiamo concludere, solo in relazione al suo tempo, e più che mai moderno ed attuale, invece, nel susseguirsi delle epoche difficili e delle sfide quotidiane.

Di Luna Renda

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