Non lasciate morire Eluana un’altra volta (tempi.it)

di Caterina Giojelli, del 8 Febbraio 2019

Eugenia Roccella

Eluana non deve morire

La politica e il caso Englaro

Dieci anni fa la politica è stata investita da domande che scuotevano le coscienze. Ma cos’è rimasto del caso Englaro e di una battaglia che vide laici e cattolici, ex socialisti, ex radicali, convergere attorno al favor vitae? Intervista a Eugenia Roccella

«Esattamente dieci anni fa, il 6 di febbraio del 2009, la Repubblica italiana viveva una delle sue giornate più convulse e per fortuna irripetibili»: così Enrico Mentana ha presentato mercoledì lo speciale di Bersaglio Mobile dedicato a “Eluana: una storia italiana”. Quel giorno di dieci anni fa, ricorda il giornalista prima di iniziare un lungo dialogo con Beppino Englaro, padre della ragazza, il presidente della Repubblica si rifiutava di firmare il decreto del governo Berlusconi che imponeva l’alimentazione e l’idratazione «forzosa» della giovane che «da 17 anni era costretta a un’esistenza vegetativa dopo un grave incidente. Da tempo il padre combatteva una battaglia perché venisse posto fine a quella non-vita, come lui la considerava e come lei stessa, nella vicenda che aveva riguardato un suo amico, quando lei ancora poteva parlare, aveva detto che non avrebbe mai voluto percorrere». 

Per tutto lo speciale si parlerà di doppia «corsa contro il tempo», quella del parlamento e del padre, quasi nulla si dirà di cosa accadde alle ore 5,45 di quel giorno di dieci anni fa, quando l’équipe del dottor Amato De Monte sospese l’alimentazione e l’idratazione ed Eluana iniziò a morire alla clinica La Quiete di Udine: le finestre sbarrate, lontano il padre, lontane le suore misericordine che l’avevano accudita per anni a Lecco, una guardia giurata alla porta. «Eppure la parola “morte” non è quasi mai stata usata durante lo speciale. Sono state utilizzate tutte le perifrasi possibili per non dare un nome all’esito da scongiurare in quella convulsa giornata passata al Senato per salvarle la vita». Eugenia Roccella era allora sottosegretario alla Salute, Welfare e Lavoro (ministro Maurizio Sacconi) quando promise che avrebbe fatto di tutto perché il caso di Eluana non scivolasse nel silenzio.

Protagonista insieme a tanti (come Quagliariello, Gasparri, Cossiga e soprattutto Berlusconi) che cercarono di impedire che quella della ragazza non fosse una morte annunciata, burocratica e inevitabile, fino ad aprire un conflitto istituzionale fra la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del consiglio, Roccella ha appena dato alle stampe per Rubbettino Eluana non deve morire (in libreria dal 9 febbraio, giorno in cui è morta Eluana) «per ristabilire qualche verità e perché tutta la vicenda sembra essere cancellata e dimenticata, quasi non fosse mai accaduta. Invece è accaduta».

Eluana era morta dal punto di vista biografico, dice il padre, «è morta 17 anni fa» disse il suo medico curante, non riprese mai coscienza, perse la propria umanità: è questo il leit-motiv dello speciale che presenta lo stato vegetativo della ragazza come una condizione permanente e irreversibile. 
I medici rifiutano oggi qualunque definizione di stato vegetativo come permanente e irreversibile e questo è stato uno dei nodi fondamentali affrontati all’epoca dai tribunali: quando la Cassazione, il 16 ottobre 2007, rovescia l’impostazione seguita fino ad allora dai magistrati, stabilisce che è possibile sospendere idratazione e nutrizione alla ragazza se si verificano due condizioni: l’irreversibilità dello stato vegetativo e la verifica della sua volontà a sottoporsi o meno alla nutrizione attraverso sondino. Ora: su Eluana non sono mai state fare indagini approfondite, come per esempio una risonanza magnetica funzionale, la Corte d’Appello, che doveva assicurare l’esistenza delle condizioni chieste dalla Cassazione, tra cui l’irreversibilità dello stato vegetativo, non ha ritenuto necessario effettuare esami in grado di fornire risposte più precise ed esaurienti. Eppure dalla relazione della consulenza tecnica medico-legale sulle cause della morte di Eluana, ordinata dalla Procura della Repubblica di Udine, sono emersi particolari che contraddicevano l’immagine di un corpo inerte, senza alcuna reazione e capacità di interagire con l’esterno, che si è voluta ostinatamente dare. Nel 1992, Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della madre, per esempio flessione dorsale dei piedi e flessione delle ginocchia», due anni dopo l’incidente è riuscita a pronunciare la parola «mamma». In quegli anni non è attaccata a nessuna macchina per vivere, respira da sola, non ha piaghe, non si è mai ammalata, le è tornato anche il ciclo mestruale. Una buona metà delle persone in stato vegetativo come lei vengono assistite per la nutrizione con il cucchiaio nella propria casa, ma i genitori di Eluana non vollero mai riportarla a casa dopo l’incidente, da qui la necessità di ricorrere al famoso sondino naso-gastrico. In mancanza di documenti scritti la Corte stabilisce inoltre che le volontà presunte di Eluana possono essere ricostruite a posteriori in base a testimonianze e «stili di vita». In altre parole la sentenza oltrepassa qualunque forma di testamento biologico: la ricostruzione della volontà a posteriori, sulla base di semplici testimonianze e indizi, diventa sufficiente per stabilire che Eluana può morire, nei modi chiesti da suo padre, senza la necessità di un vero e proprio consenso informato o almeno di un documento scritto. Nessuna proposta di legge aveva mai osato tanto. Nessuno permetterebbe che un bene materiale, una casa, ma anche solo un’auto, passasse in eredità senza un testamento scritto, con tanto di bollo notarile, mentre per lasciar morire una persona bastano un paio di frasi dette davanti a qualcuno.

Lo speciale di Mentana ha infatti dato grande enfasi alle deposizioni rese su Eluana. Come quella di un’amica, in cui si legge che Eluana, dopo essere andata a trovare Alessandro in coma in ospedale, era andata ad accendere una candela per chiedere per lui la grazia di morire piuttosto che di vivere così. Spuntano anche delle righe, che affermano che mal sopportasse di frequentare il liceo linguistico gestito dalle suore a Lecco.
Eppure molte compagne hanno negato di aver sentito Eluana invocare la libertà di morire o, come scrissero i magistrati, prendere posizione sul caso di Rosanna Benzi (la donna che trascorse 29 anni in un polmone d’acciaio) quando venne dibattuto in classe. La Corte d’Appello di Milano offre una immagine di Eluana in conflitto col liceo cattolico che frequentava dove «sarebbero stati del tutto refrattari al confronto e al dialogo». Eppure Eluana, arrivata in università Cattolica, scrive una lettera a suor Rina, la sua docente di italiano, affettuosissima. «Ho deciso di ricominciare da te, la mia educatrice. Volevo dirti sinceramente che mi manchi! Sì! E adesso chi mi sgrida quando ne combino una delle mie? Si sente che manchi!». E ancora: «Sai, devo darti una supernotizia! Ho cambiato facoltà, e, per la tua gioia, sono andata in Cattolica! Mi trovo molto bene, ho dei professori eccezionali!». La lettera è contemporanea a quella scritta ai genitori nel ’91 che Beppino Englaro ha spesso citato e letto in pubblico. Questo per dire che la raccolta delle testimonianze è stata spesso confusa e contraddittoria. Quanto al fatto che una ragazza di diciotto anni davanti a un amico in coma si auguri di non diventare mai così, questo non ha nulla a che vedere con il consenso informato: Eluana non ha mai parlato con un medico esperto di stati vegetativi che le illustrasse benefici e controindicazioni del trattamento per cui si richiede il consenso, cosa significasse morire per fame e per sete.

Englaro dice che nessuno ha mai avuto il coraggio di confrontarsi direttamente con lui. E quando Mentana gli ha chiesto come mai il caso di sua figlia avesse acceso una così grande mobilitazione, mai vista neppure ai tempi della Dc con la legge sull’aborto, ha risposto che non sapeva spiegarselo. 
Io l’ho fatto, ho partecipato a diversi dibattiti con Beppino Englaro, faccia a faccia. E Mentana ha detto bene: nessuna battaglia ha mai trovato piena cittadinanza nell’agone politico come quella che ha visto laici e cattolici, ex socialisti, ex radicali, ex missini, convergere attorno a una concezione della società modellata su una versione laica del favor vitae, e sulla centralità della persona. È stato detto di tutto a Berlusconi quando citò la capacità di Eluana di generare figli, accusato prima di immobilismo sui temi etici, poi di avere agito in ossequio al mondo cattolico. La verità è che sul favor vitae si è mosso un popolo, dagli Jannacci ai Celentano, ai medici e all’associazionismo, dalla Chiesa alla politica, fino alla gente comune. Finché si trattava di disquisire sullo stato vegetativo (è vita o no? Si sente dolore o no?), finché si polemizzava in astratto sull’autodeterminazione (della mia vita faccio quello che mi pare) la bilancia pendeva dalla parte di Englaro: ma quando Eluana viene trasportata a Udine e inizia il protocollo per la morte si inizia a respirare aria diversa. Perfino Marco Pannella se ne accorge, riconosce che è cambiato il clima in Italia, che adesso si parla di Eluana che muore di fame e di sete, che forse soffre, e che forse è meglio che Beppino si fermi. Ma il suggerimento di Pannella cade nel nulla.

Dopo aver svelato una serie di retroscena inediti sulla costruzione del caso Englaro e quanto accade alla clinica La Quiete, lei ha scritto nel suo libro che il nome di Eluana non è sinonimo di una vittoria per nessuno. 
Non siamo riusciti a salvarle la vita, ma il nome di Eluana non è diventato una bandiera da sventolare, come qualcuno aveva immaginato e progettato, come è avvenuto, per esempio, nel caso di Piergiorgio Welby. Sono state cercate altre parole, altre strade, altri slogan per far entrare in Italia il diritto a morire, e purtroppo negli anni sono stati trovati, complice l’indebolimento di quella stessa politica che era stata capace di risolutezza e protagonismo nella battaglia per Eluana. Oggi non c’è l’ombra di alcuna mobilitazione come quella di allora, dopo il caso dj Fabo se il Parlamento non interverrà, sarà la Corte Costituzionale a farlo il 24 settembre. E l’unico modo per intervenire è modificare la legge renziana sul testamento biologico che ha già introdotto de facto in Italia l’eutanasia. Non serve un’altra legge, non c’è altra strada per evitare quella già imboccata in Canada dove dagli stati vegetativi si è passati a considerare l’eutanasia in presenza di disordine mentale. O quella imboccata in Inghilterra, dove si pratica l’eutanasia anche in casi di coscienza minima, lo stesso stato in cui versa Vincent Lambert in Francia. Ci pensi chi ritiene che scegliere la morte sia un diritto come un altro, che vivere o morire siano opzioni che hanno lo stesso valore: accettare l’equivalenza tra le due scelte vuol dire spazzare via le basi della fratellanza umana, della solidarietà, della partecipazione. Lo stiamo già vedendo con la questione migranti in Italia. Se tutto si gioca esclusivamente sul principio di autodeterminazione, e quindi su un individualismo in cui ognuno può gettarsi dal Colosseo dicendosi “disperato” e sotto non si forma un capannello per salvarlo, è evidente che le ragioni profonde della solidarietà non possono sopravvivere. Non resterà che un concetto astratto della giustizia sociale, ma una democrazia che non si fonda su una forte condivisione valoriale è terribilmente fragile.

C’è qualcosa che oggi le è più chiaro di tutta quella vicenda accaduta dieci anni fa?
Dieci anni fa la politica è stata investita da domande che scuotevano le coscienze: è possibile lasciar morire una persona gravemente disabile sospendendole nutrizione e alimentazione, togliendole cioè cibo e acqua, anche se è stato un tribunale a stabilirlo? È ragionevole che a fare tutto questo siano quelle stesse strutture pubbliche che dovrebbero garantire la cura, la vita e la salute dei cittadini? È giusto che lo Stato possa dare la morte? Erano domande sui compiti, i limiti e il significato del diritto, della politica, delle istituzioni. Oggi quel dibattito sembra appartenere a una epoca remota e perduta: bisognava annichilire quell’esperienza politica, e questo è stato fatto. Prima con il governo Monti, e poi con il percorso che ha portato alla progressiva dissoluzione del centrodestra come lo abbiamo conosciuto. Chi ha partecipato a quella battaglia ha pagato.

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