Il riformismo del Pd. A proposito di un libro “ulivista” di Ferla (Democratica)

di Cinzia Ficco, del 2 Marzo 2018

Riformisti

L'Italia che cambia e la nuova sovranità dell'Europa. Idee per il Partito democratico

a cura di Vittorino Ferla

La diciassettesima legislatura si è dimostrata inaspettatamente fertile per il riformismo italiano. Nonostante la bocciatura del referendum costituzionale del 2016, sono andate in porto varie riforme. Si pensi, per citarne alcune, al Jobs act, a quella della scuola, della Pubblica amministrazione. Per non parlare dei successi nel campo dei diritti civili. I governi Renzi e Gentiloni hanno perseguito con coerenza una politica di promozione della crescita economica, nonostante i numerosi vincoli a cui l’esecutivo è sottoposto, a partire da quelli derivanti dalla natura della maggioranza. Renzi, per esempio, è riuscito ad avviare un percorso di riduzione delle imposte, contenimento dei costi dei maggiori input produttivi, per esempio dell’energia, e di controllo delle finanze pubbliche. Certo, c’è tanto da fare. Ma sembra che per una buona parte dell’opinione pubblica in questi anni nulla di rilevante sia successo.

Ma allora quanto oggi è acceso lo spirito riformista in questo partito e quanta voglia di far cambiare questo Paese c’è?
Lo abbiamo chiesto a Vittorino Ferla (Catania, ’69, giornalista, collabora con Linkiesta e lavora nell’ufficio di Presidenza del consiglio regionale del Lazio), che ha curato un libro, pubblicato di recente da Rubbettino, intitolato “L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa. Idee per il Partito democratico“, nel quale sono raccolti gli interventi e i risultati dell’Assemblea di Libertà Eguale, associazione di cultura politica, tenutasi ad Orvieto il 2 e 3 dicembre scorsi.

Ferla, Irene Tinagli (deputata dal 2013 al 2018 e componente della Commissione Lavoro della Camera) nella sua relazione parla di spinte controriformiste all’interno del Pd. Per esempio, sulla legge Fornero, sulla reintroduzione delle tariffe professionali abolite da Bersani venti anni fa, sul Jobs act (leggi raddoppio delle indennità di licenziamento). C’è il rischio che si torni indietro?
In generale, le riforme possono scatenare reazioni di difesa e chiusura da parte di quei gruppi, categorie o, peggio, corporazioni in qualche modo toccati dalle novità e preoccupati di perdere posizioni di vantaggio. Ovvio, queste persone sono anche degli elettori e spesso occupano posizioni di rilievo: questo è sufficiente per provocare una pressione molto forte anche su quelle forze – come il Partito democratico – che alle riforme hanno dedicato questi anni di governo. In più all’interno del Pd esistono sensibilità diverse che, in alcuni casi, non si sono trovate completamente rappresentate, sul piano etico e politico, dal segno riformista dei gabinetti Renzi e Gentiloni. Questo è in qualche modo inevitabile in un partito a vocazione maggioritaria che spesso contiene al suo interno voci e punti di vista dissonanti. Proprio per questo hanno fatto male alcuni critici ad abbandonare il partito preferendo una logica di pura testimonianza. Così come farebbero male i protagonisti della stagione di riforme appena conclusa a venire meno alla spinta del cambiamento. Riconosciuto questo aspetto – e quindi il rischio, giustamente segnalato da Irene Tinagli, di spinte conservatrici o controriformiste che partono dalla società e che attraversano anche il Pd – a me pare che il Partito democratico resti oggi la forza più seria e responsabile nella prospettiva delle necessarie riforme di tipo liberale e sociale che servono all’Italia e sono certo che, sulla spinta del segretario Renzi e del premier Gentiloni, ma anche di esperienze di governo importanti come quella di Zingaretti nel Lazio, questo impegno riformista non cesserà.

Un po’ critica sembra la posizione di Claudio Petruccioli. Per l’ex direttore de L’Unità, e poi presidente della Rai, per molti è difficile cogliere la portata delle riforme perché queste non sono state in grado di “attivare” le persone, spingerle a formulare propositi e ad assegnarsi obiettivi. Dice che non hanno elevato tassi di attivismo e fiducia sociale. Cosa significa?
Le osservazioni di Petruccioli sono molto utili e importanti perché colgono un aspetto che non va sottovalutato. E’ possibile che, in alcuni frangenti, la rapidità del cambiamento abbia perso per strada qualche passaggio in più che avrebbe potuto favorire il convincimento e il coinvolgimento dei diretti interessati. Tuttavia, mi pare altrettanto onesto evidenziare che quasi tutti gli interventi compiuti dai governi Renzi e Gentiloni non sono stati il frutto di un improvviso prurito di ‘fare cose’ tanto per farle. Al contrario, le riforme messe in campo erano state richieste a gran voce e da tempo da ampi settori della nostra popolazione e dalle istituzioni europee. Forse abbiamo già dimenticato il ventennio di sostanziale immobilismo che ha lasciato così indietro l’Italia rispetto agli altri paesi del mondo occidentale. In questo senso, il governo Renzi ha avuto il merito di gettare il cuore oltre l’ostacolo e decidere, una buona volta, di procedere con il cambiamento. In più, segnalerei che alcune reazioni – sia sul piano politico come nel caso della cosiddetta minoranza interna, sia sul piano sociale come nel caso del mondo degli insegnanti – sono state in gran parte ideologiche e pregiudiziali, una vera e propria miscela di conservatorismo e “benaltrismo” che nemmeno un rallentamento di passo avrebbe potuto assorbire. Da una parte, va detto che una volta scelta una linea è giusto percorrerla fino in fondo senza metterla perennemente in discussione, spesso con modalità pretestuose; dall’altra parte, va ricordato che sono state numerose le attività di consultazione messe in campo dal governo Renzi – e prima ancora dal governo Letta – su temi importanti proprio per evitare giustificazioni da parte dei conservatori.

Rimanendo sul tema riforme, quale è rimasta incompiuta o andava fatta meglio?
Le riforme sono spesso il frutto di una mediazione possibile. Pertanto, è evidente che, in molti casi, avremmo potuto avere risultati migliori e provvedimenti più completi. Resta il fatto che, come continua a ripetere in questi giorni Paolo Gentiloni, quella che si è appena conclusa è stata davvero una importante stagione di riforme. Ma quella che si apre dovrebbe continuare nel percorso appena avviato. Potrebbero farsi tanti esempi di riforme da completare. Fra queste, c’è il lavoro. E’ ancora necessario un grande impegno per far funzionare meglio il mercato del lavoro. Più precisamente, dobbiamo eliminare tutti gli ostacoli che concorrono a impedire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Penso, per esempio, al difetto dei servizi di mediazione, informazione, formazione, assistenza alla mobilità. Penso alla complessità e illeggibilità della disciplina legislativa e regolamentare del rapporto di lavoro. Penso anche agli standard minimi di trattamento retributivo fissati dai contratti collettivi nazionali, con effetti inderogabili erga omnes, in termini nominali uguali per tutto il territorio nazionale, con l’effetto paradossale di salari reali più alti al sud rispetto al nord. Per fortuna, intanto, il Jobs act è intervenuto per eliminare gli eccessi di rigidità della disciplina del rapporto di lavoro. Inoltre, la riforma del lavoro avrà effetti sugli investimenti diretti esteri con il conseguente aumento di opportunità per i lavoratori italiani. Infine, come spiega bene Pietro Ichino, il Jobs act non soltanto non ha aumentato il numero dei licenziamenti come alcuni detrattori sostenevano. Al contrario, ha favorito una drastica riduzione del tasso di contenzioso giudiziale nell’ambito del lavoro privato.

Proviamo a riaprire il dossier riforme istituzionali. Quale la riforma più urgente da fare? Il professore di diritto costituzionale Stefano Ceccanti nel suo intervento si concentra su una nuova forma di governo a cui dovrà seguire la revisione dell’attuale Senato. Come far passare il messaggio dell’urgenza di queste riforme ed evitare una seconda bocciatura?
Dopo la sconfitta del 4 dicembre 2016 ogni discorso sulle riforme istituzionali sembrerebbe privo di senso. Non a caso nessuno dei partiti impegnati nella campagna elettorale ha affrontato in modo serio questo tema nei suoi programmi. Tuttavia, la questione istituzionale è ancora aperta e i problemi sono tutti sul campo, semmai amplificati da una legge elettorale che non favorisce la governabilità. Correttamente Ceccanti ricorda che, per pesare di più in Europa, è necessario che l’Italia possa contare su un esecutivo stabile, capace di realizzare gli obiettivi che si è dato. In questo momento, in Europa, l’unico sistema che ha mostrato di reggere bene all’urto dei populismi e esprimere un governo con le caratteristiche suddette è quello francese. Il semipresidenzialismo alla francese sarebbe una soluzione ottimale per rendere più efficaci le nostre istituzioni. Se ci sarà spazio per riparlarne dopo il 4 marzo è difficile dire. Anche perché in Parlamento avremo un’ampia rappresentanza di forze populiste come la Lega e il M5S che hanno scarsa o nulla sensibilità per il tema, mentre l’altro possibile interlocutore è il partito di Silvio Berlusconi, notoriamente inaffidabile quando si parla di riforme istituzionali. Tuttavia, bisogna avere fiducia. Nulla esclude a priori che – proprio a causa di un contesto dominato dalla confusione – possa emerge un clima di responsabilità e di dialogo rinnovato tra le diverse formazioni politiche, magari sulla base di un impulso del Presidente della Repubblica. Speriamo che sia così per il bene dell’Italia.

Tutto sommato, quanto Matteo Renzi serve al Pd e, al contrario, quanto il partito è utile a Renzi?
Questa è un domanda assai “piccante”, ma vorrei rispondere ancora una volta con sincerità. Credo più la prima che la seconda. Con tutti i suoi umani limiti, Renzi è stato davvero determinante per fare uscire il Pd dalla palude dei tentennamenti delle gestioni precedenti. Anzi, potremmo dire che Renzi abbia fatto finalmente nascere il Partito democratico intenso come quella forza di sinistra di governo, moderna e liberale, a vocazione maggioritaria, che non è più soltanto la sommatoria di culture e partiti pre-esistenti e che sempre più può diventare il perno del sistema politico-istituzionale. Allo stesso tempo, però, il Partito democratico deve – e anche rapidamente – completare il suo percorso di trasformazione e scegliere in modo definitivo se accettare con coraggio la sfida del presente.

A cosa ti riferisci?
Ci sono più prove da superare. La prima sfida è quella della cultura politica condivisa che va ancora costruita e per la quale sarebbe molto utile riscoprire luoghi e strumenti permanenti di formazione. La seconda è quella dell’organizzazione sulla quale il segretario ha lavorato poco a causa degli impegni di governo, ma che va considerata come un impegno di tutti, elettori, iscritti e dirigenti. Il terzo punto è quello del consenso che va sempre più ricercato al di fuori delle proprie cerchie tradizionali. E qui davvero dispiace che l’esperienza delle primarie non sia stata utilizzata al meglio delle sue enormi potenzialità.

Il libro è stato scritto pensando alle elezioni di domenica. Obiettivo è far capire agli elettori quanto le dimensioni nazionali siano diventate insufficienti a risolvere i problemi quotidiani. Occorre cedere microsovranità e padronanza, dite. La dimensione adeguata per realizzare politiche pubbliche pertinenti e incisive è solo quella europea. Ma come spingere ad un voto europeista?
Aggiungerei che il libro è stato pensato anche per le elezioni europee del 2019 che riproporranno ancora con maggior forza il tema dell’appartenenza all’Europa. Non ho la pretesa di dare ricette miracolose che non ho, soprattutto pensando al fatto che già il contesto culturale italiano parte in difetto a causa della scarsa conoscenza/interesse per i temi europei e a causa della scarsa conoscenza delle lingue. Su questo, per esempio, servirebbe un enorme lavoro di ristrutturazione dei percorsi formativi nelle scuole e di ripensamento dei palinsesti televisivi per consentire alla gran parte della popolazione di avvicinarsi all’Europa in modo semplice e quotidiano. Senza questa base formativa e informativa è davvero molto complicato promuovere poi un lavoro di persuasione e ‘propaganda’ europea sul piano politico. Come dicevo prima per il Pd, credo sia molto importante comunque un’attività di informazione e formazione sull’ampliamento dei diritti e il miglioramento delle condizioni di vita quotidiane che dobbiamo alle politiche comunitarie e sulle infinite risorse che offre l’Europa ai suoi cittadini.

L’Italia può giocare oggi un ruolo di rilancio dell’Europa con Francia e Germania a patto che?
Il primo passaggio è chiaro: bisogna evitare assolutamente di retrocedere sugli impegni assunti con l’Europa in termini rapporto debito/pil, di rispetto del Fiscal Compact e di rispetto del pareggio di bilancio. Senza queste basi – che viceversa i populisti nostrani attaccano ogni giorno – è impossibile svolgere un ruolo da protagonisti nell’Europa che verrà. Ovvio, non voglio nemmeno immaginare un’Italia fuori dalla moneta unica: la battaglia contro l’euro non soltanto è antistorica, ma rappresenterebbe una rovina per l’economia italiana. L’altro passaggio per rilanciarsi in Europa è quello di mantenere la credibilità recuperata dai governi Renzi e Gentiloni con la forza di un esecutivo solido, responsabile e longevo. In parte, questo sarà il compito di Mattarella e delle forze che formeranno la nuova compagine di governo. In parte, però, sarà anche responsabilità del Parlamento produrre quelle riforme necessarie della legge elettorale e del sistema costituzionale capaci di garantire un efficace funzionamento delle nostre istituzioni.

Come è finita la controversia sul nome con i Liberi e uguali di Grasso che un po’ assomigliano ad Asterione, un tizio sdegnoso che se ne sta sempre chiuso in casa, protagonista di un racconto di Borges? E al di là di tutto, Libertà e Uguaglianza non sono termini antitetici?
Ovviamente, la controversia sul nome resterà una battaglia culturale non certo legale. Liberi e uguali è, oggi, una formazione composita della sinistra che non ha digerito ancora la necessaria evoluzione in chiave liberaldemocratica dei partiti socialisti e progressisti, non soltanto in Italia. In più, il collante di questa nuova formazione sembra soprattutto la rivalità con il partito democratico e l’odio contro la persona del suo segretario. Dobbiamo ancora capire, inoltre, se Liberi e uguali non abbia scelto in modo definitivo – come in molti casi appare – di sposare le risposte sovraniste e populiste oggi tanto diffuse. Vedere Fassina che dialoga con Bagnai della Lega sul recupero della Costituzione repubblicana in chiave antieuropea o vedere Bersani che offre una sponda ai Cinquestelle in vista di una possibile alleanza di governo ci fa temere che questa deriva populista e sovranista sia in corso. Ma questa roba confusa non ha nulla a che fare con una moderna sinistra europea di governo. Sul rapporto tra libertà e uguaglianza sono state scritte montagne di pagine. E’ un tema affascinante e strategico che meriterebbe ben altro spazio. Qui mi limiterei a una breve considerazione. Libertà Eguale nasce proprio con l’idea che la sinistra debba conciliare due aspetti complementari. Da un lato, una enorme fiducia nelle capacità e nelle potenzialità dell’uomo: in questo insieme rientra anche, senza alcun dubbio, la libertà di iniziativa privata e, pertanto, l’economia di mercato, strumento capace di creare sempre nuove opportunità, e la cittadinanza attiva, come svolgimento di attività rivolte al bene comune. Dall’altro, una enorme attenzione per garantire equità e opportunità per tutti, senza distinzioni di sorta, nel rispetto delle differenze, cercando di aiutare chi resta indietro, di risolvere le situazioni di fragilità sociale e di eliminare quegli ostacoli di ordine sociale ed economico che impediscono il pieno sviluppo delle persone.

Ultima curiosità: Cosa pensate dell’appello lanciato giorni fa dal direttore del Foglio, Claudio Cerasa?
E’ di sicuro un contributo utile al dibattito che contiene una serie di parametri necessari per l’azione di un futuro governo europeista e riformista. Non a caso è stato firmato anche da Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio del Senato, componente della presidenza di Libertà Eguale e tra gli autori del volume.

Il libro contiene gli interventi di: Stefano Ceccanti, Sergio Fabbrini, Vittorino Ferla, Antonio Funiciello, Pietro Ichino, Giovanni Lattanzi, Marco Leonardi, Emmanuel Macron, Enrico Morando, Giorgio Napolitano, Claudio Petruccioli, Michele Salvati, Irene Tinagli, Giorgio Tonini, Tortuga, Salvatore Vassallo

Altre Rassegne