Paura, piedistallo di Hitler

di Francesco Roat, del 9 Maggio 2013

Da L’Adige del 7 maggio 2013

Pochi giorni fa, nella notte fra il 20 e il 21 aprile, alcune centinaia di neo-nazisti provenienti un po’ da tutta Europa hanno festeggiato a Malnate (Va) la ricorrenza della nascita di Adolf Hitler, ossia dell’uomo la cui paranoica velleità imperialistica scatenò il secondo conflitto mondiale, provocando nella sola Europa circa 40 milioni di morti. Ma è bene anche non scordare che le sole vittime di origine ebraica – passate per le armi dai nazisti, sterminate col gas o fatte morire di inedia, stenti e malattie nei lager – raggiunsero la cifra spaventosa di oltre 6 milioni. A parte la suddetta notizia di cronaca, allora, l’interrogativo da porsi è il seguente: come si può oggi celebrare un dittatore colpevole, tra le altre sue numerose efferatezze, di tentato genocidio? Evidentemente o tali gruppi di fanatici, nostalgici della croce uncinata, non sanno bene come siano andate le cose nel passato o il loro gesto si situa nel solco di quell’antica fascinazione fatale che legò la stragrande maggioranza della popolazione tedesca all’uomo politico che prima rese potente e tronfia la Germania e poi ne causò la rovina e la vergogna. Ma a questo punto forse varrebbe la pena investigare l’atmosfera emozionale, culturale ed epocale che permise l’irresistibile ascesa dell’ex caporale tedesco, destinato a divenire Fuehrer del III Reich e infine sterminatore di ebrei inermi. È quanto suggerisce di fare Massimo De Angelis attraverso il suo saggio intitolato: «Adolf Hitler. Una emozione incarnata» (Rubbettino), 16 euro. In estrema sintesi, la tesi dello studioso – che trae spunto dagli scritti di Ernst Nolte – è quella di ritenere i vissuti emozionali gli elementi essenziali dell’interpretazione storica, partendo dalla convinzione che quasi mai i singoli, come le masse, agiscono a seguito di puri calcoli razionali, ma sono piuttosto mossi e dominati da impulsi, paure, aggressività rancorose, ecc. In altri termini: l’uomo interviene nella storia essendo in primo luogo: “l’ente che sente e prova emozioni». Secondo De Angelis e Nolte quindi è possibile comprendere a fondo ilperché del nazionalsocialismo solo se esso viene considerato l’«emozione fondamentale» di un popolo in un determinato ambito epocale. Non già una mera ideologia sovrastrutturale ma uno schema dello strutturarsi di mentalità, prassi e concreto modo di porsi nei confronti altrui. In quest’ottica le emozioni, lungi dal costituire il mero propellente che mette in moto un individuo o un popolo, sono parte essenziale della riflessione stessa. Cercherò di spiegarmi meglio, prendendo a prestito un rilevo fatto da Martha C. Nussbaum, per la quale ciò che differenzia la paura dalla speranza o dal dolore non sta nell’identità dell’oggetto, ma nella modalità in cui lo interpretiamo. La prospettiva di una guerra, ad esempio, può suscitare in noi inquietante terrore o fiduciosa aspettativa, a prescindere dal fatto reale che scoppierà comunque una contesa. E qual era il contesto emozionale della nazione tedesca fra le due guerre mondiali? Semplificando, elencherei: un profondo disagio per la sconfitta subita, il timor panico per una catastrofe imminente causa la crisi economica ed occupazionale e un senso di precaria vulnerabilità per i confini geografici poco definibili e difendibili. Se ad essi associamo i guasti materiali e psichici frutto della guerra 1914-18, sommati al notevole flusso di sempre nuovi immigrati, il risultato fu «una miscela emotiva di insicurezza, ansia, rabbia paura e angoscia». Ma c’è una parola tedesca che esprime bene questa mistura esplosiva. Il termine Angst, che comunica sia la sensazione di spavento sia quella di ansietà. Così Hitler, vero e proprio medium, interpretò e utilizzò quell’ustionante calderone emozionale e seppe rovesciare l’angoscia d’annientamento in odio aggressivo. Da qui all’utilizzare la politica antiebraica come elemento catalizzatore di un razzismo già presente in nuce nel paese il passo fu breve. Ma anche quella che nel saggio è chiamata l’emozione antibolscevica finì per spingere Hitler e il suo popolo a scontrarsi con la Russia, senza tener conto del fatto che – razionalmente – far guerra a Stalin si sarebbe dovuta prevedere una decisione suicida. D’altronde, ad avviso di De Angelis (e vari altri storici), «senza il movimento mondiale comunista non ci sarebbe stato il contromovimento fascista e non ci sarebbe perciò stata la Seconda guerra mondiale». In questa visione prospettica nazismo e fascismo – sorta di controrivoluzioni – sarebbero sorti entrambi per contrapporsi al marxismo e quindi al comunismo sovietico. Non a caso per i suoi estimatori Hitler non era un autocrate ma il difensore dell’Europa (oltre che della razza ariana), decisosi a scendere in campo contro il pericolo mortale costituito dall’Armata rossa bolscevica per difendere la proprietà privata dal collettivismo forzato. Bisognava, insomma tutelare l’identità occidentale europea e la purezza del sangue tedesco contro la barbarie slava e l’ebreo errante senza patria che stava occupando il suolo altrui.
Se poi teniamo conto che gli ebrei erano considerati dal biologismo/darwinismo perverso nazista esseri subumani, parassiti da annientare per la sacrosanta salvaguardia della razza ariana, è facile capire come si giunse alla creazione di una macchina per l’annientamento quale fu Auschwitz. E comprendere come un responsabile dello sterminio ebraico come Eichmann abbia potuto dire, a sua difesa, d’aver solo compiuto il proprio dovere. Comprendere, non certo giustificare, sia chiaro.

Di Francesco Roat

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