“Sentirle vicine, Alessandra e Annamaria. Sentirle”: con Tiziana Gazzini al “Ventiseiesimo piano” (Criticaletteraria.org)

di Cecilia Mariani, del 23 Ottobre 2022

Se ancora oggi, a più di vent’anni di distanza, ci chiedessero dove eravamo, con chi e che cosa stavamo facendo quando abbiamo appreso la notizia dell’attacco alle Twin Towers saremmo quasi tutti in grado di rispondere con prontezza e precisione. Viceversa, se il quesito non riguardasse più l’11 settembre 2001 bensì il 18 aprile 2002 avremmo bisogno noi, e con ogni probabilità, di porre delle ulteriori domande all’intervistatore. Il quale, e forse nemmeno tanto stupito, ci rinfrescherebbe la memoria riportandoci alla mente uno degli incidenti più eclatanti della recente storia d’Italia, quando l’aereo da turismo Rockwell Commander 112TC, guidato da Luigi Fasulo, andò a schiantarsi sul grattacielo Pirelli di Milano, sede della Regione Lombardia, provocando settanta feriti e, oltre a quella del pilota, la morte di Annamaria Repetti e Alessandra Santocito, due avvocatesse che alle 17.47 di quel giovedì si trovavano sul luogo di lavoro, negli uffici di un palazzo che era ed è ancora uno dei centri più dinamici della metropoli, simbolo architettonico di un certo frenetico vitalismo meneghino. Un evento scioccante da ogni punto di vista, ben impresso nel ricordo dei residenti ma forse un po’ dimenticato, o comunque poco commemorato a livello nazionale (sebbene ogni anno si tenga una cerimonia in Regione e delle borse di studio vengano assegnate in nome delle due vittime). Al punto che nel leggere Ventiseiesimo piano, il libro che Tiziana Gazzini ha dedicato alla ricostruzione di questo avvenimento così tragico e soprattutto alla memoria delle due donne e professioniste decedute, la prima reazione non può essere che di gratitudine: per avere riportato l’attenzione su un caso oggi poco “alla moda”, e che in realtà è un’eccezionale cartina di tornasole di un’umanità che ci riguarda e ci riguarderà sempre tutti da vicino.

Ed è proprio un senso di affinità se non di immedesimazione – quello che, quando ha appreso la notizia in diretta, seduta alla sua scrivania romana, le ha istantaneamente fatto pensare: “potevo esserci io al loro posto, poteva capitare a me” – che ha convinto Tiziana Gazzini della necessità di scrivere un libro sulle involontarie protagoniste di questa storia così fatalmente sceneggiata dalla vita e dal destino. È lei stessa a spiegarlo in alcune pagine introduttive, dalle quali ben si comprende come la distanza tra il suo ultimo lavoro – la biografia di Alessandro Kokocinski – e l’argomento del nuovo desiderato progetto fosse in realtà solo apparente: mossa dall’intuito, certa del potere indicativo e direzionale dei “segni”, non aveva dubbi che le due giovani esistenze femminili fossero mondi affascinanti alla pari dell’artista tanto amato, terre violate e desolate dagli eventi in cui però, ne era sicura, avrebbe trovato la testimonianza immortale di un patrimonio personalissimo di «ricchezza, eleganza, originalità, grazia, mistero» (p. 13). Così, difatti, è stato, e l’articolazione del volume in quattro parti che, come tappe di un viaggio conoscitivo, si soffermano ora sulle due avvocatesse (Alessandra e Annamaria), ora sulle persone facenti parte della loro esistenza nella vita privata come in quella lavorativa (Parla con loro), ora sul luogo della tragedia (Sotto le guglie del Duomo), ora sulle testimonianze dei feriti superstiti (Nella corrente), non è che uno dei molti possibili per rendere omaggio a un passato, un presente e un futuro che proprio in quel ventiseiesimo piano avranno per sempre una sorta di centro gravitazionale. Chi legge si ritrova tra le mani un libro che scorre come un documentario in cui si alternino la fredda oggettività dei fatti sostanziata da agenzie di stampa e dossier e la soggettività calorosa, inevitabilmente appassionata, dei punti di vista sull’accaduto: nel discorso diretto e indiretto con familiari, amici e colleghi; nei passaggi di prosa in cui la scrittrice sa raccontare e descrivere senza traccia di morbosità scene evidentemente degne di un action come di un disaster movie.

Chi ha conosciuto e apprezzato la Tiziana Gazzini biografa di Kokocinski e quella articolista e saggista di Visionari potrebbe provare un iniziale e più che comprensibile straniamento nei confronti di un volume come Ventiseiesimo piano. Perché è vero: nell’intraprendere questa salita non c’è lo slancio di nessuna suggestione estetica o artistica e nemmeno l’attrazione verso l’alto di una qualche atmosfera che sappia di sogno e di intrigo. Si inizia a fare queste scale con serietà, rigore, rispetto, attenzione e premura: proprio come quando ci si addentra in un edificio disastrato e si bada a non smuovere e toccare nulla per evitare ulteriori danni al sito, e magari anche a se stessi, pur sapendo che un bel po’ di quella polvere si depositerà anche su di noi, che quelle macerie graveranno anche sulla nostra anima. Eppure, gradino dopo gradino, l’identità dell’autrice si conferma, senza tradimento, anche in un lavoro così altro rispetto a quelli del passato: altrettanto meticolosa è la ricostruzione delle esistenze qui trattate, altrettanto sentito il legame con le donne protagoniste di una vicenda così drammatica, altrettanto coinvolgente è il processo di avvicinamento a una verità, una delle tante possibili, che viene mostrato con generosità nel suo farsi, nel suo ricomporsi pezzo a pezzo attraverso interviste, riflessioni, documenti di vario tipo e soprattutto passaggi di prosa in cui non si assiste mai a un puro resoconto, bensì a una narrazione che nel confrontarsi con una non altrimenti definibile tragedia non dimentica il pudore necessario nel porgere anche le evidenze più crude; quelle ostili anche e soprattutto alla retorica, così ribelli che, conclude l’autrice, se non c’è un finale per questa storia è perché ce ne sono molti. Resta la certezza che di una storia da conoscere si tratti: un esempio eclatante dell’imprevedibilità che caratterizza il nostro stare al mondo – il nostro “transito terrestre”, per citare il Franco Battiato prescelto come epigrafe – e che proprio in questa inspiegabilità, fuggevolezza e caducità ci fa sentire Annamaria e Alessandra così incredibilmente vicine pur nel loro essere così alte, lassù, a ventisei piani e venti lunghi anni di distanza; con noi che non le conoscevamo affatto, con noi che così tanto gli somigliamo.