Elogio dell’anarcocapitalismo Venanzoni (barbadillo.it)

del 8 Marzo 2021

Piero Vernaglione

Il libertarismo

La teoria, gli autori, le politiche

Nell’introduzione al fondamentale volume ‘Potere e mercato’ (IBL, 2017) di Murray N. Rothbard, economista e filosofo politico americano di impronta anarco-capitalista, Nicola Iannello cita una frase di Gianfranco Miglio il quale ci ricorda come l’anarchico, nella sua migliore essenza, svolga la funzione di pungolo del potere, costringendolo a mettersi sempre in discussione.
Siamo in certa misura assuefatti, da anni, a un continuo, lisergico mantra che se da un lato ci ricorda la ineluttabile essenzialità della presenza statale poi dall’altro finisce per far grondare sulle spalle del capitalismo, e della sua ‘forma’ economica che va sotto il nome di liberismo, qualunque nefandezza occorsa nel corso della storia sociale umana.
Eppure, a ben vedere, scandagliando la vera essenza del capitalismo e della vertigine che consiste nella sua modulazione anarchica ci si renderà conto di come le cose stiano in modo molto diverso.
E d’altronde, come ha ben delineato di recente l’antropologo J. C. Scott nel suo ‘L’arte di non essere governati’ (Einaudi, 2020) esistono realtà sociali popolate da milioni di individui, come nella terra-nomade di Zomia, in Asia, che fuggono, concettualmente e fisicamente, da qualunque ipotesi di reclusione all’interno di un perimetro statale.
In fondo, l’anarchico è l’esatto opposto dello sbracato: esige da sè stesso disciplina, conoscenza, presenza di valori fondanti che egli percepisce in maniera naturale, e non imposta da sistemi coercitivi.
A questo il pensiero anarco-capitalista americano unisce l’individualismo della tradizione statunitense, da Alfred Jay Nock a Lysander Spooner, passando per Benjamin Tucker, dell’anti-federalismo (corrente che al contrario di quanto potrebbe lasciar credere il nome, ispirato alle polemiche contro la rivista The Federalist, si presentava come iper-federalista), della Frontiera e dei pionieri, della democrazia da villaggio.
Lo spirito acquisitivo-appropriativo dell’homesteading lockeiano, secondo cui chi , avanzando, colonizzando, scoprendo si imbatte in una res nullius, come la Frontiera, finisce per appropriarsene e farne il proprio ordine sociale modulato dalla propria azione umana, unito simbioticamente con la rinascenza dell’interesse per lo spirito del 1776, e ancor prima del 1773, anno del Boston Tea Party, pietra fondante dell’indipendentismo statunitense ed episodio dalla valenza talmente mitopoietica da aver suggestionato e impresso a fuoco nella scena politica l’idea della rinascenza dei Tea Party.

Libertà e responsabilità: la lezione della Scuola austriaca
L’anarco-capitalismo non è ‘capitalismo selvaggio’, darwinismo sociale, o sopraffazione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare; si tratta di una corrente di pensiero economico e politico-filosofico che si diffonde prima negli USA e poi in altri Paesi del mondo a partire dagli anni sessanta del XX secolo, principalmente per opera del vulcanico M. N. Rothbard, già allievo di Ludwig von Mises e che arriverà a superare, in maniera anarchica appunto, la lezione dell’oggettivismo di Ayn Rand, come ha brillantemente rilevato Piero Vernaglione nel suo ‘Il libertarismo – la teoria, gli autori, le politiche’ (Rubbettino, 2003).
Il pensiero anarco-capitalista tenta la sintesi tra la lezione economica della scuola austriaca (Carl Menger, Eugen von Bohm-Bawerk, il citato Mises, A. F. von Hayek), basata su mercato come locus di libertà, importanza dei prezzi, liberismo economico, rilevanza del comportamento umano, scarsità delle risorse e il ritorno a un canone morale della esistenza, sotto condizione di libertà: non è casuale come Rothbard riscopra e attualizzi la lezione di Aristotele, Tommaso d’Aquino, Locke e arrivi a fonderla con la ricerca della libertà, e della preservazione della stessa una volta raggiunta, che ha ispirato in precedenza la dottrina economica e sociologica di Mises.
Il quale, lo possiamo ricordare, avversava il socialismo e le complicazioni stataliste per la loro negazione del fattore umano: quando infatti Mises, palesando l’individualismo metodologico nella sua più pura essenza, scrive che solo l’individuo pensa, solo l’individuo agisce non mira a disarticolare la società per farla regredire a uno stadio tribale, da guerra di tutti contro tutti, ma al contrario vuole mettere in luce il nesso contingente tra libertà e responsabilità.
E’ il mercato, come spazio di allocazione razionale delle informazioni, delle scelte, di formazione dei prezzi a garantire lo sviluppo della civiltà umana e delle innovazioni tecniche e sociali; e a ben vedere, ripercorrendo a ritroso la storia umana ci si rende conto di come l’inventiva umana, unitamente alla proprietà privata, si sia, da sempre, accompagnata alla valorizzazione della propria inventiva, anche, e perché no, monetizzata.

Capitalismo feudale: le origini europee del capitalismo
D’altronde, è innegabile, l’evoluzione della società è avvenuta mediante scoperte, concorrenza, competitività, rotte commerciali: la lex mercatoria medievale ha connesso tra loro città e mondi che al contrario sarebbero rimasti fisicamente separati e incomunicanti. Proprio per questo, avanzando una tesi all’epoca ardita ma con il passare degli anni sempre più realistica, un insigne studioso come Jean Bachler (‘Le origini del capitalismo’, IBL, 2016) ha posto l’accento sul carattere tipicamente europeo delle origini del capitalismo, vincolandone i prodromi essenziali proprio nel canone medievale.
E a ben vedere, la degenerazione statalista della politica, come forma protesa solo al mantenimento di rendite di posizione elettorali, viene ricondotta da una parte significativa della dottrina anarco-capitalista alla equazione che collega democrazia e socialismo.
Secondo Hans-Hermann Hoppe, la democrazia è strutturalmente votata a trasformarsi, degenerando, sul lungo periodo, in un sistema collettivista. Vi è da dire che gli ultimi anni e avvenimenti politici, tra redditi di cittadinanza, bonus a pioggia e sussidi di ogni ordine e grado, sembrano dargli piena ragione.
Per rispondere a questo degrado politico, la soluzione, secondo Hoppe, è quella della creazione di enclave secessioniste, valorizzando un federalismo radicale come vedremo più oltre, basate su codici etici libertari, sulla difesa proprietaria e sul riconoscimento del libero mercato.
Hoppe, nel suo ‘Democrazia: il dio che ha fallito’ (Liberilibri, 2003), frainteso da alcuni come volume neo-monarchico, dimostra ricorrendo a una copiosa analisi economica e sociologica come i sistemi democratici siano strutturalmente votati alla inefficienza e come il costo dei diritti politici sia sul lungo periodo insostenibile, producendo processi di cattura dei partiti da parte di istanze parassitarie.
Superiore, dice Hoppe, la monarchia assoluta, in quanto a base proprietaria: il Sovrano, proprietario delle terre e dei denari, sa di non potersi permettere errori particolari di gestione o di eccedere nell’uso del potere perché sopporterebbe direttamente il costo dei danni.
In questo senso, la lezione mira anche a valorizzare lo spazio storico medievale come momento di inventiva, di valorizzazione del singolo, di creatività e di libertà (G. Piombini, ‘Il Medioevo delle Libertà’, GoWare, 2020).

‘Le tasse sono un furto’: la negazione del patto sociale
La deriva socializzante, intesa come tutto che tutti avvince in maniera tirannica, viene dall’anarco-capitalismo rispedita al mittente.
La negazione del valore fondante del patto sociale e dello Stato, che anima tanta parte della riflessione di Rothbard, del suo allievo Hans Hermann Hoppe, di David Friedman (figlio del premio Nobel Milton, e che tenterà una commistione tra anarco-capitalismo e utilitarismo nel suo ‘L’ingranaggio della libertà – guida a un capitalismo radicale’, Liberilibri 2008), di Walter Block, di Henry Hazlitt, di David Gordon, è innanzitutto una richiesta di riconoscere valore all’individuo, come essere umano morale e senziente: l’individuo che agisce nella libertà del mercato, in regime di concorrenza, non è uno speculatore (e non ci sarebbe alcun male laddove lo fosse) ma una persona che deve razionalizzare e raffinare i flussi di informazione, sapendo che gli errori ricadranno sulle sue spalle.
In questo senso, assume valore basilare il riconoscimento del valore della proprietà privata, vista come pietra di edificazione della civiltà umana e degli altri diritti, autentica matrice della libertà individuale.
Per questo viene formulato un generale canone di continenza etica che va sotto il nome di principio di non aggressione, a mente del quale, autentico codice morale libertario, non si può arrecare danno agli altri: in questo senso, ‘danno’ non è solo la mera azione violenta e brutale ma qualunque forma di imposizione coercitiva, dalle tasse alle espropriazioni.
La non aggressione si trasforma poi nel ripudio della guerra e delle politiche imperialiste, come ha ben chiarito la vita politica di Ron Paul, autentico apostolo della libertà nell’asfittico panorama politico-parlamentare statunitense.
E, parimenti, nel rifiuto dei sistemi bancari centralizzati, i quali avrebbero come unico potere quello di distorcere i sistemi economici, da cui la ben nota e radicale richiesta del citato Paul, ‘End the Fed’ (Grand central publishing, 2009).

Privatizzare tutto
L’ordine sociale libertario in questo senso si basa su forme di privatizzazione integrale ideate proprio per responsabilizzare gli individui, a differenza di uno Stato che ha scarsa attenzione per le vere esigenze delle persone: si pensi a una strada malmessa e crivellata di buche, mai riparata da un Comune o da una Regione, nonostante le tasse pagate.
E’ evidente che se il frontista potesse essere proprietario effettivo di un tratto di strada, sopportando anche i rischi di eventuali incidenti occorsi a persone in transito sarebbe maggiormente responsabilizzato alla manutenzione dell’asfalto.
A differenza dell’apparato pubblico, il quale maneggia risorse economiche non proprie e persegue interessi e fini altrettanto non propri, perdendosi dietro una coltre di spessa burocrazia, il singolo individuo nel cuore del mercato, e della concorrenza, è fisiologicamente costretto alla auto-responsabilizzazione.
La privatizzazione totale dovrebbe, in questa chiave di lettura, portare alla responsabilizzazione maggiore, in termini di efficienza economica e di consapevolezza gestoria e lato sensu politica, i singoli individui.
In questo senso vengono rigettati ambientalismo, femminismo, collettivismo, perché implicano una dequotazione strutturale del singolo individuo, unico capace di capire davvero cosa sia meglio per il suo proprio bene.
La protezione ambientale sarebbe maggiormente efficace se rimessa a logiche mercatorie, con sistemi assicurativi e di risarcimento del danno, mediante la privatizzazione degli oceani, dei mari, dei laghi (sul punto, il volume curato da W. Block ‘Water capitalism’, Lexington books, 2015).
Le stesse funzioni tipicamente sovrane, come difesa nazionale, ordine pubblico e giustizia, sarebbero secondo vari pensatori anarco-capitalisti privatizzabili ricorrendo ad agenzie di protezione private in regime di perfetta concorrenza tra loro (H. H. Hoppe, a cura di, ‘The myth of national defense’, Mises Institute, 2003), e mediante sistemi di giustizia arbitrale.
D’altronde, se ci pensiamo bene, la corruzione è figlia di una gestione monopolistica della forza da parte dei pubblici poteri: la concorrenza oltre ad aumentare l’efficienza, implicherebbe valutazioni comparative, trasparenza, circolazione dei dati.
Una ventata d’ossigeno per una esausta funzione giurisdizionale dilaniata da carrierismo e correntismo, come ci rimandano plasticamente notissime vicende di cronaca.

Difendere l’indifendibile: la bellezza del profitto

Non che profitti e speculazione, poi, non possano avere una loro intrinseca dignità.
La speculazione stessa svolge la funzione di vedetta dei mercati, e spesso opera quale vincolo esterno per economie nazionali malmesse costringendole a robuste cure per rimettersi in sesto.
Possiamo indignarci per non godere più appieno della nostra sovranità, ma spesso se ci riflettiamo la sovranità nazionale diventa una mera foglia di fico per ingolfare l’economia di debito pubblico funzionale solo a far crescere idee come il reddito di cittadinanza e i sussidi per i monopattini che finiranno per gravare sui nostri figli e sui figli dei nostri figli.
Parliamo sempre, con enfasi teatrale, delle generazioni future, ci interroghiamo sul mondo che stiamo lasciando loro, e poi in realtà stiamo apparecchiando loro un futuro devastato dal debito pubblico utilizzato per consentire a qualche ex Ministro di farsi un giro in monopattino lungo una arteria stradale.
E in quanto ai profitti, come il prezzo che rappresenta uno scambio informativo a suggello di una transazione, la loro ‘eticizzazione’ finisce per generare reazioni avverse, semi-statalizzazioni che inquinano il benessere economico che essi potrebbero invece ingenerare senza il peso ingombrante di questa cappa di ‘responsabilità sociale’, come ha sottolineato di recente F. De Benedetti nel suo bel volume ‘Fare profitti – etica dell’impresa’ (Marsilio, 2021).
Negli anni settanta Walter Block pubblicò un gustoso saggio, dal significativo titolo ‘Difendere l’indifendibile’ (Liberilibri, 2008), nel quale dava conto in maniera analitica di come anche tutte le attività moralmente ripugnanti e in alcuni casi criminali, come la prostituzione, la detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti, possano indicare, sempre che non integrino una aggressione ad altri o implichino danni a soggetti terzi, una transazione volontaria che sul lungo periodo potrebbe migliorare la felicità dei soggetti coinvolti: vero è che, al netto di sfruttamento e di coercizione, ogni attività che si basa su uno scambio davvero volontario è libera.
Altrettanto vero che parliamo spesso di industria o mercato del sesso o della droga senza mai davvero considerare in termini tecnici questi aspetti come davvero industriali o mercatori: lo Stato spesso si mantiene lungo il delicato crinale dell’ipocrita repressione, della inerzia contemplativa e lascia che le mafie prosperino dietro la coltre dei vari proibizionismi.

Il federalismo capitalista come valorizzazione delle comunità territoriali
Nell’anarco-capitalismo e nelle correnti ‘libertarian’ che postulano se non la totale scomparsa dello Stato almeno la sua drastica riduzione (la funzione di ‘guardiano notturno’ dello Stato minimo postulato da Robert Nozick), avviene una significativa valorizzazione del federalismo e del riconoscimento della libertà e della auto-determinazione delle comunità territoriali.
Già Mises aveva posto l’accento sulla necessità di decentrare fortemente il potere, e successivamente Rothbard aveva sviluppato la sua teorizzazione delle ‘nazioni per consenso’. Vero è che, soprattutto in un mondo così altamente globalizzato, ogni ordine territoriale tende a reclamare la propria specificità, le proprie caratteristiche e la propria libertà (N. lannello C. Lottieri, ‘Secessione’, Editrice La Scuola, 2015).
D’altronde appare evidente come i moti centripeti della contemporaneità siano quelli della sussidiarietà, della autonomia, della emersione sempre più palese e patente della libertà delle comunità territoriali, un aspetto questo che il pensiero anarco-capitalista aveva intuito sin dalla sua emersione.
Nei casi più radicali, come quelli teorizzati da Hoppe, si assiste alla volontà di creazione di enclave autonome, funzionalmente interconnesse, governate da un codice etico libertario, dalla libertà individuale e dalle logiche di mercato.
Si tratta di teorizzazioni riprese dai teorici delle ‘città-private’ (free private cities) come Titus Gebel o come nel caso del ‘seasteading’, il progetto di Patri Friedman, figlio di David, largamente finanziato dal venture-capitalist Peter Thiel e che consiste nel realizzare città-Stato marine altamente tecnologizzate, auto-sovrane, indipendenti e interconnesse le une con le altre, qualcosa di simile all’Isola delle Rose, su cui di recente è anche intervenuto un bel film.

Conclusione: una forma politica italiana
E’ ancora in circolazione, tra Youtube e altri siti internet, un arcaico discorso in cui Umberto Bossi arringa la folla parlando della bellezza del liberismo economico.
Pur non essendo definibile come anarco-capitalista, la prima Lega, complici le suggestioni intellettuali di Miglio, Oneto e altri, si abbeverava a idee originanti nel medesimo crogiolo filosofico: federalismo, autodeterminazione, concorrenza, auto-responsabilizzazione, libero mercato.
La stessa idea di ‘secessione’ è a suo modo tipicamente misesiana, e al di là dei suoi aspetti folklorici, delle ampolle con acqua del Po e via dicendo, essa indica la valorizzazione suprema del bene territoriale e della responsabilizzazione delle comunità territoriali.
Ed oggi?
Si muovono soggetti politici, gruppi intellettuali, penso a ‘Nuova Costituente’ di Carlo Lottieri, o al Movimento Libertario che gravita attorno le attività intellettuali ed editoriali di Leonardo Facco; vi è la meritoria iniziativa libraria di Guglielmo Piombini, la bolognese libreria Del Ponte, e vi sono pure le ‘serate del Drago’ organizzate dall’Associazione Gilberto Oneto.
Ma in generale, se ci si pensa, si sconta un paradosso: il liberalismo radicale, o per riprendere il titolo di un libro di Bruno Leoni ‘integrale’, diventa utilissimo, dal punto di vista politologico, semantico, sociologico e filosofico considerando la virale superfetazione di riferimenti alla ‘svolta liberale’ di ogni partito presente in Parlamento.
Ultimo in ordine di tempo, persino Di Maio ha espresso la vocazione ‘moderata e liberale’ del M5S.
Ed ecco così che sia pur minoritario, l’anarco-capitalismo rimane a guardia di certi concetti e a presidio di alcune libertà, prima che il campo sia invaso da chi di ‘liberale’ ha davvero poco.

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