La terra desolata d’Europa secondo Eliot politico (Avvenire)

di Andrea Monda, del 15 Maggio 2012

Da Avvenire – 12 maggio 2012
Il mese di ottobre dell’anno 1922, mentre i fascisti si preparavano a marciare su Roma, in Inghilterra usciva la prima edizione di The Waste Land di T.S.Eliot. La terra desolata, ovvero la rappresentazione dinamica, plastica della «crisi», quella crisi della civiltà di cui parlerà nel suo acuto saggio Huizinga nel 1935 (si sa, i poeti sono per natura preveggenti), a cui la carneficina della Grande Guerra non aveva dato alcuna risposta e che per Eliot non è il segno della fine ma anche l’implicita espressione di una possibile rinascita, contenendo la crisi in se stessa anche una potenziale valenza catartica.

Questo paradossale appello alla speranza rimarrà sempre presente nella riflessione di Eliot che nel 1939 meditando su L’idea di una società cristiana parlerà di un mondo occidentale in frantumi ma «ancora cristiano» con una lungimiranza da spingere Sergio Quinzio, mezzo secolo dopo, a riconoscere che quelle riflessioni «ci svelano della società in cui adesso viviamo verità che non vediamo, come chi nel folto degli alberi non vede che il bosco». Ma la prima intuizione è già presente nel poema del ’22, in quella lucida rappresentazione della crisi che segna anche l’inizio di un processo che porterà progressivamente Eliot ad occuparsi sempre più di politica, affiancando alla produzione poetica e teatrale un itinerario critico fortemente marcato dalla riflessione filosofica. E da questo inizio del ’22 parte anche Angelo Arciero, docente di Storia delle dottrine politiche e profondo conoscitore del Novecento, del totalitarismo e dell’Inghilterra degli anni Trenta e Quaranta in un saggio che vuole arrivare appunto alle origini del pensiero politico di Eliot cercando di analizzarne le modalità critiche, i presupposti teorici e le finalità ideologiche. Il cammino intellettuale di Eliot prende quindi le mosse da La terra desolata per estendersi gradualmente oltre l’ambito meramente letterario e si incentra sulla sofferta presa d’atto delle responsabilità degli uomini di lettere, una responsabilità che spinge il poeta angloamericano qualche anno dopo nel 1928 a dichiararsi pubblicamente «classicista in letteratura, monarchico in politica e anglocattolico in religione». In quegli stessi anni un teologo per certi versi all’opposto di Eliot come Teilhard de Chardin affermava che «c’è un’opera umana da compiere» e, come ha colto acutamente Giovanni Casoli (un altro raffinato osservatore dell’ opera dell’autore di Assassinio nella cattedrale), per Eliot «uomini non si è, ma si diventa»: è quindi facile intuire come il passo dalla poesia alla politica sia stato breve nel nome della responsabilità. Un passo breve ma non di semplice lettura e che non è stato spesso analizzato in precedenza, una lacuna ora colmata con acribia dallo studio di Arciero che accompagna il lettore dentro la «selva» del pensiero di Eliot (e i richiami a Dante sono numerosi quanto in eludibili) impedendogli di fare come «chi nel folto degli alberi non vede che il bosco».

Di Andrea Monda

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