Tra politica e ‘ndrangheta

di Arcangelo Badolati, del 14 Marzo 2013

Da Gazzetta del Sud del 13 marzo 2013

Politica e ‘ndrangheta. Un rapporto antico e malato sviscerato in tutta la sua drammatica pericolosità, senza timori e reticenze, da uno scrittore che conosce tutte le diaboliche sfaccettature della criminalità organizzata calabrese. Una criminalità che pervade e inquina da più d’un secolo una fetta di territorio nazionale compresa tra l’Aspromonte e il Pollino ma che è pure “esportatrice” di modelli delinquenziali “vincenti” nel resto d’Europa. Una criminalità che ha sfruttato l’emigrazione per insinuarsi anche in terre lontane, mostrando d’essere capace d’infiltrarsi nelle istituzioni della lontana Australia e nelle assemblee parlamentari del freddo Canada.
Enzo Ciconte, docente universitario, ex parlamentare, autore di pregevoli volumi sulla ‘ndrangheta e le sue “filiazioni” nazionali e internazionali, affronta con il suo ultimo libro “Politici e malandrini” (Rubbettino) lo spinoso tema dei legami tra il mondo della politica e quello delle cosche.
Il lungo e periglioso viaggio comincia dalla Reggio Calabria di metà Ottocento, che subisce lo scioglimento del consiglio comunale. Le elezioni celebrate nel 1869 vengono infatti annullate per via dei brogli registrati e del condizionamento esercitato dai mafiosi dell’epoca che minacciano e sfregiano candidati e loro sostenitori. Da quell’anno in avanti è una escalation di condizionamenti e intimidazioni che non risparmieranno piccoli e grandi comuni della regione. Il sostituto procuratore generale delle Calabrie, Lorenzo Ernesto Repollini, fotografa il drammatico quadro in una relazione ritrovata e pubblicata da Ciconte. Porta la data del 1905. Il magistrato scrive: «La picciotteria calabrese ha per più anni turbato le nostre città più importanti da Reggio a Monteleone e da Catanzaro e Cosenza». La ‘ndrangheta è dunque già padrona dei territori all’inizio del secolo scorso e influenza pesantemente le istituzioni e continuerà a farlo anche con l’avvento del Fascismo.
Nel Ventennio, le picciotterie svolgeranno una doppia funzione: da un lato tenteranno d’infiltrarsi nel Regime, indossando la camicia nera e dall’altro soddisferanno i bisogni elementari della povera gente amministrando privatamente giustizia. L’autore richiama Corrado Alvaro per meglio chiarire il ruolo esercitato dai capibastone durante la dittatura mussoliniana. «Il potere occulto, creato dalla violenza – sostiene lo scrittore di San Luca – conquista il potere ufficiale e finanziario anche perché nessuno in paese considera gli uomini d’onore gente da evitare, e non tanto per timore, quanto perché formano ormai uno degli aspetti della classe dirigente ». E poi aggiunge: «Si ebbe qualche podestà maestro di sgarro e qualche proprietario capo bastone». Insomma, i capicosca si camuffano, dissimulano e continuano a comandare.
Con la caduta del Duce le cose non cambiano. La criminalità calabrese è camaleontica e, come dimostra “Politici e malandrini”, si struscia con il potere senza distinzione di colore. Morto un papa se ne fa un altro. Per i boss è importante riuscire ad avere sempre le mani in pasta. Per rimanere nel gioco sposano perciò le cause della Democrazia Cristiana che, nel 1948, li accoglie volentieri , secondo l’autore, perché deve far fronte alla minaccia comunista. Da quella fase storica in avanti boss e picciotti rimarranno saldamente ancorati alle fortune della “balena bianca”, forti pure della cecità d’una classe dirigente e politica che negava in Sicilia l’esistenza della mafia e, in Calabria, quella della ‘ndrangheta. Ciconte ricostruisce pure i retroscena della cosiddetta “Operazione Marzano” scattata tra l’agosto e l’ottobre del 1955 dopo il ferimento della moglie del deputato liberale Antonio Capua. Un’operazione ben manovrata politicamente e mirata a tagliare da un lato i collegamenti tra i mafiosi ed i liberali e la parte di Dc non fanfaniana e, dall’altro, tra gli “uomini di rispetto” e il Partito comunista. Già, perché lo scrittore approfondisce pure il tema dei “picciotti rossi”, una questione mai fino in fondo esplorata da ricercatori e analisti.
Le sinergie tra alcuni comunisti e gli ‘ndranghetisti vengono avviate durante i comuni periodi trascorsi al confino durante il ventennio fascista. Gli uni influenzano gli altri con i loro discorsi sulle ingiustizie e l’arroganza del potere statuale. E così gli “uomini di rispetto” cominciano a cibare la loro violenza di una confusa ideologia antisistema, trasformandosi in “mafiosi con la falce e il martello”. Ciconte racconta le storie del sindaco di Canolo, Nicola D’Agostino, e dei suoi figli e successori; di Pasquale Cavallaro, animatore nel 1945 della Repubblica rossa di Caulonia, e del consigliere comunale di Limbadi, Francesco Mancuso, capostipite dell’omonima famiglia mafiosa. La documentata ricostruzione di quella particolare fase storica del partito di Togliatti in Calabria lascia sbigottiti, anche se l’analisi dell’autore giunge poi ad una seconda e ben più importante epoca del Pci lungo la punta dello Stivale. L’epoca della convinta lotta alle ‘ndrine che, partendo dai moti di Reggio Calabria, segnerà positivamente l’impegno moderno dei dirigenti del Pci, lasciando pure sul campo veri e propri martiri come Giuseppe Valarioti e Giannino Losardo.
Il viaggio dello studioso tra urne, affari e lupare si dipana poi attraverso le storie di figli di boss impegnati in politica per i partiti di governo, come Bruno Nirta, oppure attraverso il controverso rapporto esistente negli anni 90 tra esponenti del Partito socialista e la consorteria dei Pesce fino ad arrivare alle scelte elettorali del vecchio capobastone Peppino Piromalli. Ciconte ripercorre poi le vicende giudiziarie di un gran numero di uomini politici, di ogni colore e appartenenza, fino all’omicidio di Francesco Fortugno, le inchieste che coinvolgono esponenti regionali, fino ad arrivare ai “locali” del Nord che in Piemonte, Liguria e Lombardia votano e fanno votare. Quella di Ciconte è il primo saggio che offre una complessiva visione del fenomeno ‘ndrangheta-politica. L’autore affida la conclusione del volume ad un illuminante pensiero dello storico calabrese Augusto Placanica che, colto da avvilimento ma non da rassegnazione, lancia un anatema contro«quell’oceano di politicanti, di saprofiti, di prepotenti e di arroganti che hanno traviato una regione intera, che hanno illuso, usato, deluso i conterranei».

Di Arcangelo Badolati

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