La pieve medievale è del popolo. E se la restaura lui (Avvenire)

di Roberto I. Zanini, del 4 Dicembre 2013

da Avvenire del 4 Dicembre

Conservare un bene artistico non è restaurarlo, non è tutelarlo, «ma è dare significato, dare libertà, dare rilievo» all’attenzione di chi si pone davanti a quel bene. «Conservare non è un lavoro sull’oggetto, ma sul nostro sguardo. L’impegno è sullo sguardo». L’ultimo libro di Luca Nannipieri “Libertà di cultura” (Rubbettino, pp. 158, euro 10), sui beni artistici fra rilancio e abbandono, ruota intorno a questo concetto, che trova corpo a pagina 77.
Le 60 pagine che seguono sono un ragionare sulle conseguenze: da quelle legislative, a quelle che riguardano le singole comunità poste di fronte ai loro beni storico-artistico-paesaggistici, a quelle relative al concetto stesso di patrimonio culturale nella storia. Nannipieri non è nuovo a questi ragionamenti. Lui è convinto che il futuro dei beni culturali non si debba agli altisonanti riconoscimenti attribuiti dall’Unesco, piuttosto che da uno Stato o da un noto ente di tutela. Per diretta esperienza sa che c’è una decisiva differenza fra un grande monumento restaurato dalle istituzioni nel totale disinteresse della gente che gli vive intorno e una piccola pieve di campagna risistemata da un’associazione di privati del luogo per essere pienamente vissuta dalla comunità locale. La differenza, appunto, è nel «dare libertà», nel «dare rilievo». Da una parte c’è la scelta, c’è l’imposizione dall’alto; dall’altra c’è la libera scelta di una comunità per la salvaguardia di un bene al quale è legata dagli usi, dall’amore per i propri luoghi. È in questa prospettiva che il sottotitolo del pamphlet recita: «Meno Stato e più comunità per arte e ricerca». Con la medesima logica il testo si chiude con una parola chiave: «comunione». Intesa come essenza del concetto di comunità che condivide al suo interno l’amore per la sua storia e desidera estenderlo anche all’esterno.
Difficile obiettare a questo ragionamento. Il problema nasce quando l’autore lo vorrebbe tradurre in forma di legge (così che lo Stato deleghi alle comunità la salvaguardia dei loro beni in funzione dell’amore che nutrono per essi) e quando lo vorrebbe come concetto alla base della definizione stessa di beni da salvaguardare: «Saranno le comunità liberamente composte, liberamente insorgenti, a determinare nascita, consunzione, trasformazione e morte di ciò che esse sentono essere patrimonio, secondo interessi, ideali, conflitti, visioni che non possono essere imposti come predeterminati». Parole che, oltre a suonare utopiche e in parte anarchiche, cozzano con alcune evidenze che ci mostrano beni di rilevanza per la nostra cultura che se lasciati alle comunità locali verserebbero (e versano) nel degrado.
Ammettendo poi che abbia ragione Nannipieri quando dice che «conservare è un lavoro sul nostro sguardo», non si può non pensare che quello sguardo vada educato e che amore e buona volontà non bastano senza professionalità organizzate e denaro.

di Roberto I. Zanini

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