La buona economia non è quella di Keynes. Parola di Einaudi (Il Giornale)

di Carlo Lottieri, del 30 Ottobre 2012

Da Il Giornale – 28 ottobre 2012
Lo scorso anno la ricorrenza del 50esimo della morte di Luigi Einaudi ha riacceso i riflettori su questo protagonista del ‘900. Francesco Forte non aveva però bisogno di tale circostanza, poiché riserva da sempre un’attenzione speciale a Einaudi, come conferma la pubblicazione da lui curata di un’antologia di scritti einaudiani (Rubbettino) che prende il titolo da un articolo del 1933 (su La Critica sociale): Il mio piano non è quello di Keynes. In questi saggi si tratta di Keynes a più riprese: come quando si mette in discussione la cosiddetta «trappola della liquidità» (secondo cui il risparmio frenerebbe la crescita), anche riflettendo sul boom economico di Italia e Germania all’indomani del 1945 ed evidenziando il ruolo positivo del risparmio privato, vittima in troppe circostanze di una tassazione espropriativa.

Ma nel libro c’è molto di più. In una recensione riservata a Irving Fisher, ad esempio, si sottolinea quanto sia cruciale la pietra d’angolo di ogni analisi monetaria: quella teoria quantitativa che connette l’aumento della moneta e la crescita del livello dei prezzi (una teoria pur sempre da reinventarsi, come fa lo stesso Fisher esaminando la velocità della circolazione della moneta e il ruolo dei surrogati monetari: dagli assegni ai titoli di altro tipo). Al contempo Einaudi ricorda come anche in quello egli definisce «uno dei capi della scuola matematica dell’economia politica» alla fine conti soprattutto la struttura logica della riflessione. Per questo ai suoi occhi l’americano è un economista di razza, che insiste sulle «vecchie verità semplici e chiare del buon tempo antico, in cui scrivevano i Ricardo, i Say, gli Stuart Mill, i Ferrara; verità arricchite di nuovi corollari ed esposte in un linguaggio più rigoroso, più affascinante, più probante, più profetico (Fisher dalle sue formule applicate ricava previsioni che sono utilissime ai banchieri, industriali, commercianti) del linguaggio comune che usava un tempo». Tale attenzione alla storia della cultura è un tratto essenziale del modo einaudiano di fare economia, ancorato alle ragioni del liberalismo classico. E in questi scritti è netta la convinzione che una società solida esiga una moneta «sana», una proprietà tutelata, un ordine giuridico che limiti l’azione pubblica e tuteli gli imprenditori. Proprio per questo in Einaudi abbiamo un «piano» assai diverso da quello di Keynes. Dinanzi alla proposta di espansione della massa monetaria avanzata dall’economista britannico, Einaudi è netto. Per lui aumentare la quantità di moneta significa produrre inflazione, ma «l’aumento dei prezzi equivale a una imposta», e per giunta si tratta di una tassazione del tutto peculiare e tale da disturbare la vita economica. E aggiunge che «il disordine sociale del dopoguerra fu dovuto non alla guerra in sé, ma alla inflazione monetaria la quale si accompagnò, sebbene non necessariamente, ad essa». Conclusione: adottare di nuovo soluzioni espansive «potrebbe significare il crollo della civiltà occidentale».
Nel 1946, riflettendo sulle condizioni della ripresa, Einaudi fa questa puntuale affermazione: «il male di cui noi soffriamo non è che ci sia troppo risparmio impiegato; il male è che oggi i risparmi sono cresciuti di meno di quanto non sia cresciuto il fabbisogno del risparmio, determinato dal moltiplicarsi dei biglietti e dal crescere dei prezzi». Esattamente in questo senso il keynesismo quale koiné comune delle politiche monetarie del nostro tempo risulta allora in stretto rapporto con quelle crisi a ripetizione da cui ancora non siamo usciti e col generale dissesto istituzionale con cui ogni giorno facciamo i conti. L’economista Einaudi, oggi, avrebbe insomma molte critiche da indirizzare a Mario Draghi e Ben Bernanke.

Di Carlo Lottieri

Altre Rassegne