Così bella così dolce, intervista ai curatori (Cinemaitaliano.info)

di Carlo Griseri, del 3 Luglio 2012

Da Cinemaitaliano.info – 3 luglio 2012
Intervista agli autori del saggio sul dittico Bresson/Dostoevskij, Francesco Bono, Luigi Cimmino e Giorgio Pangaro

Cosa ricercate in un libro e in un film per inserirli nella vostra collana? Quali le loro caratteristiche?

Come prima reazione, e del tutto ovviamente, diremmo: devono esserci piaciuti. In realtà, non occupandoci professionalmente degli oggetti (libri e film) che andiamo ad affrontare, siamo molto liberi da considerazioni e costrizioni tanto di natura accademica quanto da quelle legate all’attualità e alle mode, di conseguenza le nostre scelte sono perlopiù originate da discussioni di tipo amicale su temi e testi (letterari o filmici che siano) che per le ragioni più diverse, che non avrebbe senso andare a sceverare qui, ci interessano, ci appassionano, ci incuriosiscono, detto in due parole, per l’appunto “ci piacciono”. Accade, probabilmente non per caso, che la discussione vada quasi sempre a parare, se non proprio dentro, almeno nei pressi del cosiddetto canone, quello letterario dapprima, e allora parlando dei libri che in una qualche maniera ci hanno segnato, viene spontaneo chiedersi se il cinema ne ha fatto buon uso.
Non è cosa ovvia, ché spesso un grande film, quando non sia frutto di una sceneggiatura originale, è tratto piuttosto da un’opera letteraria, se non proprio mediocre, raramente eccelsa. Ma ci sono eccezioni, casi fortunati, in cui da un testo importante, da un capolavoro, magari un capolavoro “minore” (vedi ad esempio il caso dell’ultimo lavoro che abbiamo pubblicato, cioè La mite) origini un film importante. Un film importante: il che non significa un film di successo, non significa neppure un film “bello” se usiamo l’aggettivo nell’accezione corrente, ma importante perché in misura più o meno significativa è riuscito a incidere nella coscienza e nella memoria (magari di pochi), un’opera in cui la tecnica e lo stile (la forma del contenuto, coppia indissolubile) hanno lasciato un’impronta, che magari in maniera sotterranea, continua a lavorare in quelli che sono venuti dopo. Detto così, un po’ grossolanamente, queste sono le cose che cerchiamo in un libro, in un film, e potremmo generalizzare ancor più, dire quindi che quel che cerchiamo in un’opera d’arte è il senso, qualcosa che ci aiuta e ci accompagna, qualcosa che dura e resiste nel corso del tempo. Il che potrebbe essere anche una discreta, seppur parziale, definizione di “classico”.
Infine va detto, e non per piaggeria, che abbiamo la fortuna e il privilegio di lavorare con un editore, Florindo Rubbettino, che ci lascia la più totale libertà di scelta, un direttore editoriale, Luigi Franco, che ci supporta con passione e competenza, e un direttore di collana, Christian Uva, che occupandosi seriamente, oltre che professionalmente, di cinema ha saputo da subito capire ed apprezzare il lavoro che tassello dopo tassello cerchiamo di fare. Tutto questo potrebbe sembrare ovvio, e dovrebbe esserlo (posto naturalmente che il lavoro che si fa meriti di esser preso in considerazione), ma non è affatto così: la situazione dell’editoria nel nostro paese non è rosea, e quella di nicchia in particolare consente davvero pochi margini, pubblicare quindi molto spesso è molto più complicato e gravoso che scrivere.

“Così bella così dolce” affronta una novella e un film non così noti al grande pubblico: la “marginalità” del tema è sottolineata da voi nell’introduzione. Potete spiegare meglio il concetto?
La marginalità a cui facciamo riferimento, non è precisamente quella del tema, ma piuttosto quella del cinematografo di Robert Bresson, marginalità pur sempre relativa, perché è ovvio che gli studiosi e i critici cinematografici l’opera del maestro francese la conoscono bene, o almeno dovrebbero, (se la definizione vale forse un po’ meno per il testo di Dostoevskij, non illudiamoci che l’opera sua sia moneta corrente per il grande pubblico), una marginalità che è immediata conseguenza di una poetica che è innanzitutto etica, quindi, per farla breve, nessuna concessione allo spettacolare, nessun cedimento alle lusinghe dello show business.
Un cinematografo scabro ed essenziale che indaga incessantemente le ragioni del bene, ma ancor prima e ancor più quelle del male. I temi sono pochi, e sono sempre quelli ineluttabili, che comunque tutti, visto che siamo al mondo, dobbiamo affrontare e che non si possono, se non a caro prezzo, rimuovere: la vita, la morte, l’amore e la sua impossibilità, l’odio e il suo dilagare. Poco altro rimane di cui parlare se vogliamo fare un discorso serio. Allora è facile capire il perché della marginalità del cinematografo di Bresson. La gente, il pubblico di massa, quello che fa fare cassetta, va al cinema per distrarsi, per rilassarsi, per stupirsi ed evadere dalla routine, nei casi migliori per commuoversi e poi magari mettersi in pace la coscienza. Niente di tutto ciò si trova nei film di Bresson: non risposte ma domande, non consolazione ma costrizione alla riflessione, niente effetti speciali: agnizioni elise, ritmi inquietanti, costruzione, teorizzata e praticata, di una sintassi specifica del cinematografo, del tutto svincolata dalla mimesi teatrale che caratterizza molto del cinema mainstrem.
Abbiamo evidenziato con il corsivo la locuzione cinematografo riprendendo una chiara indicazione di Bresson volta precisamente a separare e distinguere due modalità quasi antipodiche di intendere la mise en écran. Sono queste alcune, non tutte certo, della ragioni di una marginalità che potremmo anche chiamare rimozione, dell’opera di un maestro scomodo e severo che, se mai ne ha avute, probabilmente poche chance avrà mai, per come il futuro che ci si prospetta, di diventare popolare.

Domanda banale ma (forse) inevitabile: meglio il libro o meglio il film?
Domanda forse inevitabile, ma risposta decisamente impossibile. Come dire: è meglio la mela o la pera? Prima di tutto è una questione di gusti, poi nei limiti in cui ha senso fare confronti potremmo dire: è meglio la pera Williams o la pera Abate? È vero che infine rimane pur sempre questione di gusti, ma almeno i frutti di cui trattiamo appartengono alla stessa specie.
Mele e pere sono e rimangono incommensurabili, ne consegue che la domanda piuttosto che banale è decisamente insensata. E poi, detto in confidenza, se non si è dei feticisti della carta stampata, ovvero dei cinefili a un livello patologico, magari si corre il rischio di divertirsi di più.

Che trasposizione è quella di Bresson, fedele o libera?
Altra bella domanda! Possiamo dire (anche se forse è solo un modo per cavarsela a buon mercato) che la trasposizione fatta da Bresson nella sua versione cinematografica della novella di Dostoevskij La mite, è tanto fedele quanto libera. Per esser chiari: Bresson segue fedelmente nella sostanza, e a volte in maniera puntigliosamente letterale, lo svolgersi degli eventi descritti da Dostoevskij, ma lo fa scegliendo di tradire liberamente la forma esteriore di quanto accade. Detto in poche parole, la vicenda tratta di una coppia, decisamente mal assortita, la cui relazione si concluderà con il suicidio di lei. Questo in Dostoevskij, lo stesso in Bresson.
Ma dalla San Pietroburgo di metà ottocento passiamo alla Parigi degli anni sessanta. I protagonisti non sono più, come in Dostoevskij, una misera servetta poco più che adolescente e un quarantenne ufficiale a riposo, carico di livore, frustrazioni e dubbi. Lei (una splendida e giovanissima Dominique Sanda, al suo esordio cinematografico) è una studentessa, universitaria presumiamo (Bresson non ce lo dice con chiarezza: la cosa è chiaramente di secondaria importanza); lui (i protagonisti non hanno un nome proprio nel racconto, non lo hanno neppure nel film) è un trentenne, serioso, forse anche un po’ cupo, di professione fa il tenutario di un banco dei pegni. Sono mondi distanti nel tempo e nello spazio, ma il bisogno d’amore, il dolore, il male di vivere, sono assolutamente identici.
Non basta una rivoluzione per cambiare nel profondo le necessità, quelle vere, degli esseri umani. Ma lo si capirà meglio leggendo la novella, magari, anche se non sarà per niente facile procurarsene una copia, vedendo il film. Dopo aver fatto tutto ciò forse vale la pena di leggere il libro che abbiamo curato…e poi ricominciare a leggere la novella, magari con più vigile attenzione e miglior coscienza, e poi ancora rivedersi il film. Davvero: l’impresa vale la spesa!

Il prossimo volume è su “Morte a Venezia”: qualche anticipazione? Quali le caratteristiche del rapporto libro/film in questo caso?
Le caratteristiche del rapporto tra le due opere, beh, queste ancora non le sappiamo. Le scopriremo, di solito accade così, man mano che ci arriveranno i contributi degli studiosi che abbiamo coinvolto nell’impresa. Quanto alla modalità d’approccio, quella è la solita, ed è poi quella che caratterizza il lavoro che andiamo facendo: una disamina, condotta da diversi punti di vista disciplinari, delle opere di due grandi autori, in questo caso Thomas Mann e Luchino Visconti. Del testo di Thomas Mann dire che è uno dei grandi capolavori della narrativa del novecento dovrebbe bastare. La morte a Venezia è il racconto dove forse con la maggior chiarezza si evidenziano alcune delle qualità più proprie di Thomas Mann: ironia, ambiguità e potenza cognitiva. E questo dovrebbe bastare a dar ragione della scelta che abbiamo fatto. Ma c’è una ragione ulteriore che ci ha portato in questa direzione (una ragione che in realtà precede la decisione di lavorare sul testo manniano): volevamo lavorare sull’opera di un maestro italiano, e discutendo sulle possibilità ci siamo resi conto, un po’ a malincuore, che sono davvero rari i capolavori della nostra cinematografia tratti da grandi opere letterarie.
Ecco, queste, in sintesi, le motivazioni del lavoro che stiamo preparando. Questo per ora è quanto, speriamo di essere stati esaurienti, e che il lavoro che facciamo possa incontrare un pubblico capace di apprezzarlo.

Di Carlo Griseri

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