Caso Calipari: la verità nascosta (L'Espresso)

di Stefania Maurizi, del 27 Marzo 2012

Da L’Espresso – 27 marzo 2012
Anche i morti sentono freddo quando sono sulla soglia dell’oblio. A citare Sant’Agostino è un magistrato: Erminio Amelio, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, chiamato a sostenere l’accusa in un processo che non si è mai celebrato: quello per l’omicidio di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi ucciso a Baghdad il 4 marzo 2005, subito dopo aver liberato la giornalista del ‘Manifesto’, Giuliana Sgrena. Amelio ha scritto un libro che, nonostante la complessità della vicenda, si legge di un fiato (‘L’omicidio di Nicola Calipari‘, Rubbettino, 16 euro) e che si chiude con un’ammissione di sconfitta: ingiustizia è fatta.
Sì, perché Calipari, in missione per lo Stato e che allo Stato ha dato la vita, giustizia non ne ha avuta, né è stato possibile accertare la verità sulla sua morte. Il nome del soldato americano, Mario Luis Lozano, che sparò sull’auto di Calipari, che viaggiava verso l’aeroporto per riportare a casa la Sgrena, è stato scoperto per puro caso, perché gli Stati Uniti hanno respinto qualsiasi forma di collaborazione con la magistratura italiana che indagava sull’omicidio. Nel giugno 2008, una sentenza della Cassazione ha stabilito che Lozano non era processabile in Italia per un difetto di giurisdizione: la Suprema Corte ha riconosciuto al soldato Usa la cosiddetta ‘immunità funzionale’, uno scudo che lo ha sottratto a qualsiasi giudizio e condanna.
Se Nicola Calipari fosse stato ucciso nell’era pre-WikiLeaks avremmo potuto solo immaginare certi retroscena della partita Italia-Usa sul caso, dovendoci però fermare alle supposizioni e ai sospetti, come ormai avviene da sessant’anni per i cosiddetti ‘misteri italiani’: da piazza Fontana a Ustica. E invece i 715.039 file rilasciati dall’organizzazione di Julian Assange, che includono i cablo della diplomazia Usa e i report dal campo della guerra in Iraq e in Afghanistan, hanno portato alla luce 26 documenti segreti, che sollevano il velo delle menzogne e delle trattative inconfessabili tra Italia e Usa sul caso Calipari.
Si tratta della versione dei fatti che l’ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, che ha gestito la partita, racconta al Dipartimento di Stato, certo. Ma quelle comunicazioni diplomatiche non sono parole in libertà, sono report basati su dati e informazioni capaci di orientare la politica estera americana. I file su Calipari raccontano come Berlusconi, Gianni Letta, Gianfranco Fini, allora ministro degli Esteri, Antonio Martino, alla Difesa, e il capo del Sismi, Nicolò Pollari, accettarono un compromesso con gli Usa, che salvò la faccia a tutti, preservò ragione di Stato, carriere e rapporti personali e diplomatici, facendo solo una vittima: la verità. Quel compromesso – rivelano i documenti- le istituzioni italiane lo accettarono la sera stessa del funerale di Nicola Calipari, quando incassarono l’offerta di partecipare ai lavori della commissione militare americana. Attenzione: non una commissione congiunta Italia-Usa capace di cercare la verità su basi paritetiche, come allora scrisse quasi tutta la stampa italiana, ma una che facesse quanto fatto «con il caso del Cermis», come sottolineò esplicitamente Mel Sembler, evocando un’altra strage americana contro cittadini italiani rimasta completamente impunita. E un mese dopo aver incassato il consenso delle istituzioni italiane, Sembler, in un cablo segreto a Washington, ammetterà con candore che uno degli obiettivi degli Stati Uniti fosse stato quello di «prevenire la richiesta di un qualche tipo di commissione congiunta più approfondita, che andasse a indagare sull’uccisione». I file di WikiLeaks raccontano tutte le trattative per accelerare «la scomparsa del caso dallo schermo radar della politica (italiana)». Ora, però, il libro del pm Amelio lo riporta in primo piano.

Perché ha scritto questo libro?
«Questo libro vuole essere una testimonianza di un fatto gravissimo che è accaduto sette anni fa. Ho notato che, in un brevissimo arco di tempo, una vicenda che aveva destato scalpore e sdegno poi era finita nel nulla. E di fatto tutto si è risolto nel nulla. Non essendosi potuto celebrare il processo, il popolo italiano non ha potuto conoscere come si sono svolti i fatti. E allora, con questo libro, cerco di dare la possibilità a chi vorrà leggerlo di farsi un’idea, attraverso gli atti delle indagini, e quindi di capire perché Nicola Calipari è morto, per mano di chi, di chi sono le responsabilità».

Nel libro lei sottolinea che il diritto internazionale non prevede l’immunità per un semplice soldato, ma solo per capi di Stato, di governo e poche altre figure. Com’è possibile che si sia ‘inventata’ un’immunità che non esiste?
«Il diritto non è matematica, dove due più due fa quattro. Ci sono due sentenze che, pur pervenendo alla stessa conclusione del difetto di giurisdizione, ci arrivano attraverso ragionamenti opposti. La Corte di Assise valuta l’immunità funzionale, esposta dal difensore di Lozano, ma ritiene che non si applica e stabilisce che si applica il diritto della bandiera. La Cassazione, invece, stabilisce che non si applica il diritto della bandiera, ma si applica l’immunità funzionale, specificando nella sentenza – e da questo punto di vista accogliendo i motivi del pubblico ministero – che il diritto della bandiera non si applica, perché sussiste per altre vicende: quelle che riguardano i fatti commessi in alto mare, dove non c’è giurisdizione alcuna. E’ ovvio che siamo nel campo delle interpretazioni, dove può venire fuori una sentenza che dice una cosa e una che ne dice un’altra, perché il diritto è un’interpretazione da parte di giudici, che secondo la propria scienza e la propria coscienza pervengono a una decisione: per alcuni può essere condivisibile, per altri no. Io non la condivido, ma la rispetto e la critico, perché è previsto l’esercizio del diritto di critica»

Calipari fu ucciso da un soldato americano a un posto di blocco istituito per proteggere il passaggio dell’ambasciatore Usa in Iraq, John Negroponte. Nel libro, lei sottolinea che quella postazione fu mantenuta per oltre mezzora dopo il transito del convoglio di Negroponte: una scelta contro ogni logica, perché esponeva i soldati a un rischio altissimo di attentati. Lei scrive che non pare fantasia che il posto di blocco sia stato mantenuto per sorvegliare le operazioni di recupero di Giuliana Sgrena…
«Io ricostruisco questa vicenda e non lo faccio sulla base mie sensazioni. I fatti dicono che quella postazione non era un check point, era un posto di blocco. E il posto di blocco va organizzato in un certo modo. Non sono io a dirlo, sono gli americani nel loro rapporto. Deve durare al massimo mezzora, perché si tratta di un tipo di postazioni ‘volanti’, allestite in posti pericolosi per far fronte all’emergenza e quindi la loro durata è necessariamente commisurata a una specifica missione. Sono gli americani a dire che durò fino alle 20.50, il minuto in cui venne ucciso Calipari. Considerando che il posto di blocco era stato posto in essere alle 19.30, è durato un’ora e venti minuti. Sono gli americani a dire che alle 20.30 il capitano Drew ha chiesto di poterlo smantellare, ma gli fu risposto di mantenerlo ancora per altri 20 minuti. Riporto quello che c’è scritto nei documenti. Alle 20.50 passa l’auto di Calipari e i soldati del posto di blocco gli sparano. Non ho aggiunto niente. Poi sarà una coincidenza, non sarà una coincidenza, ognuno si farà un’opinione. Però ecco la funzione del libro: la gente lo deve sapere. E questo libro vuole dare la possibilità di leggere i fatti, visto che non è stato possibile leggerli in un processo».

Gli Usa negarono qualsiasi forma di collaborazione alle indagini della magistratura italiana, al punto che il nome stesso di Mario Luis Lozano è stato acquisito solo per errore, grazie a una banale tecnica informatica che ha permesso di togliere dal report degli americani le ‘pecette’ elettroniche che ne coprivano il nome…
«Basta consultare gli atti per vedere quali sono state le nostre richieste fin dalla mattina del 5 marzo. Abbiamo chiesto i nomi, i cognomi e di indicare le modalità in cui si erano svolti i fatti. Da parte americana, assoluto silenzio. Quando i nomi sono venuti fuori con quella tecnica informatica, abbiamo detto: visto che anche noi ormai sappiamo quello che voi sapevate e che ci avevate taciuto, ci fornite le generalità di Lozano? Gli notificate l’avviso di conclusione indagini? Neanche questo è stato fatto. Collaborazione nulla da parte degli Usa. Hanno espresso il cordoglio per la famiglia Calipari, e in una delle risposte, anch’essa agli atti, hanno scritto che il caso è chiuso. Quindi l’omicidio del numero due dei servizi segreti italiani, ovvero del più alto funzionario operativo, perché sopra di lui c’era solo il direttore generale, non ha avuto accertamento né in Italia, né negli Stati Uniti, né in Iraq. Questa persona ha regalato la vita agli altri, ha salvato la vita di Giuliana Sgrena per ben due volte nella stessa giornata, ha salvato altri nostri connazionali, ha operato per lo Stato italiano ed è andato in Iraq perché lo Stato italiano lo ha inviato. E di questo si perde memoria. Non è possibile. Di Nicola Calipari ci siamo dimenticati quasi immediatamente, dopo aver dato una medaglia d’oro».

I documenti di WikiLeaks rivelano le trattative per gestire diplomaticamente e mediaticamente il caso. Anche la stampa si fece ingannare da quella commissione congiunta Italia-Usa sulla morte di Calipari. Secondo lei, ci fu una manipolazione della stampa o si trattò semplicemente di superficialità?
«Nel mio libro non ho volutamente parlato dei documenti di WikiLeaks, perché, pur essendo importanti, mi sono voluto attenere ai dati che conoscevamo noi, non a quelli di ambienti in cui l’autorità giudiziaria non può avere accesso. Ho voluto tenerli separati proprio per non contaminarli, mi si passi questo termine. Quella commissione, non congiunta, ma tecnico amministrativa, inizia dei lavori. A cominciare sono gli americani, ma dopo cinque giorni sono ammessi anche gli italiani con una serie di limitazioni. Allora io dico: se una commissione è congiunta, tutti devono avere gli stessi poteri, altrimenti è congiunta solo da un un punto di vista formale. Se io e lei facciamo una commissione e io conto più di lei, allora lei ci sta per avallare le mie scelte. Però, devo dire che gli italiani hanno avuto la forza di dire no: hanno prodotto un documento autonomo nel quale smontano completamente le affermazioni degli americani. Quello è un documento forte».

Ecco, i documenti di WikiLeaks smontano anche questa lettura dei fatti. Rivelano, infatti, che la scelta di presentare due relazioni finali, una americana e una italiana, a chiusura dei lavori della commissione, fu una questione di pura opportunità politica. Non ci fu nessuna rottura. Fu la via d’uscita con cui il governo Berlusconi si salvò la faccia ed evitò l’accusa di avere insabbiato. Gli americani capirono e accettarono machiavellicamente, tanto i loro soldati la facevano comunque franca…
«Sì, ma quello italiano è un documento forte, perché dice agli americani: la tua ricostruzione non vale, non mi puoi dire che non hai messo i cartelli per segnalare il posto di blocco perché tanto gli italiani non capivano l’inglese. Su quei cartelli c’era scritto “stop”. Allora se un italiano non conosce la parola stop, non può circolare neanche con la macchina in Italia. Sono cose che fanno sorridere. Perciò nel libro dico che quello italiano è, comunque, un lavoro meritorio. Manca il passo ulteriore, che avrebbe consentito di accertare la verità e probabilmente quel passo non è stato fatto perché si è tenuto conto del contesto storico e degli interessi che c’erano in gioco. Si tratta di una conclusione amara: avevamo forse la possibilità di arrivare alla verità e di fare giustizia. Ed era il nostro dovere e il nostro debito verso Nicola Calipari: dargli solamente verità e giustizia. E’ quello che non abbiamo potuto fare».

La domanda più incisiva sul caso Calipari la pone proprio l’ambasciatore americano, Mel Sembler, sui documenti rilasciati da WikiLeaks: ‘Perché di trenta auto che quella sera passarono davanti a quel posto di blocco, spararono solo a quella di Calipari?’ Lei crede che la sua morte abbia fatto comodo per lo scontro che c’era nei servizi segreti italiani in quegli anni?
«Non mi voglio avventurare in terreni che non sono miei. Registro che spararono alla macchina di Calipari. Ora sarà suggestione, sarà coincidenza, ma hanno sparato all’unica macchina contro cui non dovevano sparare, perché era l’unica che si avvicinava tranquillamente all’aeroporto, aveva i fari accesi, aveva la luce interna di cortesia accesa, un segnale di Baghdad per dire che era una macchina amica. Era un’auto che si avvicinava tranquillamente, perché non aveva alcuna necessità di correre, in quanto c’era un aereo a disposizione che sarebbe partito all’arrivo di Calipari. Calipari e anche il maggiore che era con lui erano delle persone navigate. Eppure gli americani spararono solo contro quella macchina. Che cosa dobbiamo dire? Se avessimo potuto fare qualche indagine in più, se non ci fosse stato anche il segreto di Stato, opposto e apposto, se ci fosse stato un briciolo di collaborazione da parte degli americani, magari avremmo capito di più».

Di Stefania Maurizi

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