Ancora scrittura collettiva! WM2 intervista Lou Palanca

del 2 Maggio 2013

Dal sito dei Wu Ming, 30 aprile 2013

Il 18 aprile scorso, in un articolo storico e sistematico sulla scrittura collettiva in Italia, Vanni Santoni non li ha manco nominati. Eppure so bene – per via di telefonate intercorse – con quanta attenzione l’autore abbia scritto quel pezzo, destinato a diventare una piccola summa del fenomeno. Più che una prova di inaccuratezza, la mancanza di Lou Palanca in quelle righe, è la dimostrazione che la letteratura a più mani, in Italia, sta diventando un’esperienza talmente vasta e ramificata da sfuggire alle mappature dei cartografi più appassionati e coinvolti.
Blocco 52 è uscito nell’autunno dello scorso anno per la casa editrice Rubbettino, e neppure noialtri ce ne saremmo accorti, se WM2 non avesse incontrato tre Lou Palanca durante il tour calabrese di Timira.
Palanca – chi ne sa di pallone se lo ricorderà – era un attaccante mancino dai baffi molti Seventies, capace di segnare 13 gol direttamente dal calcio d’angolo. Detto piedino di fata per via delle scarpe taglia 37, fu bandiera e cannoniere del Catanzaro in serie A. E da Catanzaro arrivano pure due dei cinque Palanca collettivi, che però si chiamano Lou, mentre l’ex-calciatore fa di nome Massimo.
Giovedì 2 maggio, WM2 presenterà a Bologna Blocco 52 e per l’occasione ha rivolto loro alcune domande.
WM2: Blocco 52 ruota intorno alla storia di Luigi Silipo, sindacalista dell’Alleanza dei Contadini, attivo a Catanzaro nel Dopoguerra, morto in circostanze misteriose e presto dimenticato dalla città, dai partiti della sinistra, dai suoi stessi compagni. Il vostro romanzo, però, non è soltanto uno strumento di memoria e di indagine postuma. La vicenda di Silipo è anche il pretesto per raccontare un’epoca di trasformazioni che non coinvolse solo Catanzaro e la Calabria, ma l’Italia intera. Quali aspetti di questa storia, per certi versi così locale, trascendono secondo voi i suoi stessi confini?
LP: E’ vero, abbiamo iniziato ad interessarci di Luigi Silipo quando abbiamo casualmente incocciato nel racconto della sua morte violenta, prendendo atto che l’uccisione di un quarantanovenne già membro del comitato centrale del Pci era totalmente scomparsa dalla memoria collettiva della nostra città, ma poi abbiamo maturato la convinzione che dentro la sua fine stavano molte altre storie, non solo calabresi e non solo politiche. Così, abbiamo cercato di raccontare un periodo in cui l’intero Sud si apriva alla modernizzazione e al progresso con un fiducia totale e una voracità incontrollabile di benessere e possibilità. Non solo Catanzaro – che si apprestava a divenire capoluogo di Regione e a cancellare la propria identità culturale e urbanistica in cambio di palazzi, uffici e stipendi statali – ma molti pezzi del Sud hanno pagato un prezzo enorme per le scelte sbagliate compiute in quel momento, assumendo tutti i vizi della modernità capitalista ed urbana (cementificazione selvaggia, periferie-ghetto, conformismo, devastazione paesaggistica) senza riceverne in cambio i vantaggi altrove connessi.
Allo stesso modo, il 1965 e gli anni successivi rappresentano il periodo di preparazione alla fine dell’egemonia sociale dei gruppi e alla liberazione dell’individuo. Altra grande conquista che arriva ai giorni nostri in forme totalmente degenerate, chiedendo per l’appunto di tornare a riflettere sul senso profondo della libertà, della solidarietà, della giustizia sociale. In una società piccola e chiusa come quella calabrese dei primi anni ’60, Silipo – comunista osteggiato dalla famiglia borghese, non sposato, non cattolico, insofferente all’ortodossia di partito – incarna questo scontro tra individuo e gruppo, e come tutti coloro che arrivano in anticipo paga un prezzo molto alto per le proprie scelte.
Infine, la parabola discendente di Luigi Silipo è anche la storia della trasformazione del Partito comunista italiano, ormai avviato verso una egemonia della cultura operaista e nordista e come tale desideroso di sbarazzarsi dei vecchi quadri – tutti cresciuti nelle lotte bracciantili e legate ad una visione del Sud incompatibile con le nuove parole d’ordine – e di costruire nuovi gruppi dirigenti. La fine di Silipo, violenta e misteriosa, sarà diversa dall’accantonamento o dalla riconversione di altri esponenti del Pci, ma l’una e le altre saranno funzionali alle politiche di industrializzazione del Sud che orienteranno, ancora una volta, gli sviluppi degli anni successivi. Proprio come accadeva nella Cgil, dopo la morte di Di Vittorio.

WM2: Nel libro, la morte violenta di Luigi Silipo si intreccia con quella di Giuseppe Malacaria, con la strage di Piazza Fontana e con i rapporti ambigui tra il PCI e la comunità degli italiani espatriati a Praga, sfuggiti alle montature giudiziarie del Dopoguerra. Perché avete scelto di mettere insieme proprio queste vicende? Cosa le accomuna sul versante narrativo? Come si illuminano a vicenda? Cosa significa la loro combinazione?

LP: Il nostro racconto è pieno di intrecci perché la storia che abbiamo deciso di raccontare è indissolubilmente legata ad altre storie. Quello che abbiamo scelto è solo di non sciogliere i nodi e di riproporre al lettore gli incroci e le sovrapposizioni che abbiamo scoperto andando avanti nel nostro lavoro. Vi è, al fondo di questa scelta, la volontà di non isolare arbitrariamente – come tanto spesso accade – la Calabria dal resto dell’Italia. Catanzaro, in quegli anni, è al centro di una serie di avvenimenti di interesse nazionale e recidere questi legami è sempre stato funzionale al racconto estremo della Calabria, ovvero alla costruzione di una diversità calabrese che spiega e rende accettabile ogni evento, che neutralizza sin dall’inizio la richiesta di conoscenza e giustizia. Catanzaro non è una città mafiosa, dal dopoguerra agli anni ’70 si contano solo due morti violente: Luigi Silipo e Giuseppe Malacaria, ucciso da una bomba neofascista durante una manifestazione di protesta contro alcuni attentati. Due morti, nessun colpevole, nessun processo e nemmeno nessun atto giudiziario ancora consultabile, giacché tutto è andato misteriosamente perduto in questi anni.
Malacaria viene ucciso durante la rivolta di Reggio Calabria – evento decisivo nella trasformazione della ‘ndrangheta e nell’evoluzione della strategia della tensione – e poco prima che Catanzaro diventi la sede del più importante processo della storia repubblicana, quello di Piazza Fontana. Anche gli atti di quel processo si apprestavano a scomparire, così come dai palazzi di Catanzaro è scomparso Franco Freda, scappato con l’aiuto dei neofascisti calabresi e riparato tra le braccia accoglienti di dittatori sudamericani grazie al supporto della ‘ndrangheta reggina.
C’era una rete nera che passava da qui (e ha continuato a passarci per molto tempo, se non altro perché Stefano delle Chiaie venne a vivere a pochi chilometri da Catanzaro, mentre a pochi chilometri da Catanzaro era nato Pino Rauti), ma c’era anche una rete rossa – che accolse e protesse gli anarchici coinvolti nel processo di Piazza Fontana – che provò a svelare depistaggi e connivenze pagando con la vita (i cinque anarchici di Reggio) e che arrivava fino a Praga, come dimostra la vicenda di Luigi Silipo e la sua amicizia con Annunziata Chirico. Questa comunista di Scilla, entrata come giornalista nelle segreteria di Terracini, viene spedita in Cecoslovacchia per far parte della redazione della trasmissione Oggi in Italia che andava in onda su Radio Praga.
La sua è la storia di tanti partigiani e militanti italiani, come raccontato nel libro Uomini ex di Giuseppe Fiori, che fecero esperienza sulla propria pelle del “socialismo reale”; conosciuta all’estero come Tinka Levantini, la Chirico dopo avere denunciato le trame dell’assassinio Silipo, finì per lasciare improvvisamente il partito e la vita politica. Emozioni, sentimenti e storie ieri dimenticate e oggi finalmente fissate nella memoria grazie ai fratelli Levratti ed al loro documentario Memory. Fughe dalla democrazia.
Raccontare la storia dimenticata delle lotte dei raccoglitori di gelsomino, delle donne che coltivavano il bergamotto e delle speranze che animavano questa terra significa anche raccontare il “great game” in cui queste lotte si inserivano e il “dirty game” che ha contributo a spezzarle.

WM2: Fabio Cuzzola, uno dei cinque Lou Palanca, ha scritto un magnifico libro – Cinque anarchici del sud – sulla morte tragica e dimenticata di cinque ragazzi, schiacciati tra la rivolta di Reggio Calabria, i piani golpisti di Junio Valerio Borghese e l’attentato al rapido di Gioia Tauro. Spesso Fabio, sul suo blog, si occupa di morti scivolate nell’oblio. A lui – e a tutto il collettivo – vorrei chiedere se si è fatto un’idea di quali meccanismi portano a dimenticare vicende anche molto significative, a non preservarne la memoria, a riscoprirle soltanto a distanza. Quali sono le cause principali di quella “selezione” che condanna alcune figure e ne “promuove” altre?

LP: Parafrasando Sciascia “il nostro è un paese senza memoria e verità. A questa prima banalissima citazione, possiamo aggiungere la convinzione che ad essere dimenticati sono i personaggi scomodi, i perdenti radicali, le seconde linee della storia. Luigi Silipo ci era apparso proprio così: inviso alla famiglia e al proprio gruppo sociale di appartenenza, osteggiato dal nuovo gruppo dirigente del Partito in cui militava, personaggio di periferia, riferimento di contadini straccioni e di giovani troppo rispettosi della disciplina, ontologicamente impossibilitato a divenire un eroe. Ma non è certo Silipo l’unico ad essere stato dimenticato – basterà citare Daniele Sepe che cantava un lungo elenco “Di morti invano” – a dimostrazione che forse vi sono ragioni più profonde o, chissà, più casuali, a determinare il silenzio, l’intitolazione di una via o il radicamento nella coscienza di una comunità.
In questo senso, certamente s’inserisce anche l’uso strumentale e politico che si fa della storia; ci sarebbe da discutere a lungo su quell’egemonia culturale che ha selezionato cosa scrivere nei libri, nei manuali di storia delle scuole, finendo non solo per relegare nell’oblio storie e personaggi non ascrivibili dentro i dogmi, ma deformandone anche i fatti, si pensi alla guerra civile spagnola o al movimento studentesco negli Usa.
WM2: Nel fare ipotesi sulla morte di Silipo avete utilizzato gli attrezzi della narrazione, mettendola al lavoro sul materiale d’archivio. Invece di ridurre i possibili scenari, li avete moltiplicati e fatti esplodere. Il giallo produce così molti sospetti, ma nessun colpevole definitivo. So che questo vostro metodo, anche spregiudicato, ha attirato polemiche, accuse di eccessiva immaginazione. Voi che ne pensate? Quali accortezze avete adottato nell’avvitare il bullone della narrativa dentro il dado della storia? Quanto “gioco” avete lasciato? Quali responsabilità vi siete presi?

LP: Non volevamo scrivere un ennesimo libro “giallo”, così come richiede oggi il mercato dell’editoria italiana. Il lavoro si è basato sul materiale d’archivio e, prevalentemente, sulle testimonianze orali delle persone che abbiamo incontrato e che conoscevano Luigi Silipo. Possiamo dire che, di fatto, abbiamo ascoltato tanti moventi e tante “piste” quante le persone che abbiamo incontrato. Ognuno ha la sua ricostruzione, ognuno la sua verità, ognuno le sue suggestioni. L’assenza di documenti giudiziari e la presenza di un numero così vasto di “verità” ci ha spinto ad abbandonare la velleità iniziale di redigere una sorta di inchiesta giornalistica e ci ha convinti ad adottare un linguaggio diverso, quello della narrazione, della fantasia, dell’invenzione. Nel libro mescoliamo continuamente il vero al verosimile, gli atti ufficiali alle conversazioni probabili, ci investiamo insomma del potere di plasmare la vita di persone realmente esistite e di rimodellare circostanze effettivamente verificatesi. Siamo consci dei rischi che corriamo e di quanto siano insufficienti le mille accortezze che abbiamo utilizzato, ma siamo altresì convinti che sarebbe stato molto più grave lasciare questa storia seppellita nell’oblio. Crediamo che sia utile, opportuno e giusto raccontare la vita e la morte di Luigi Silipo, crediamo che sia utile, opportuno e giusto trasmettere la ricchezza delle sue relazioni, la profondità dei suoi dubbi, la freschezza delle sue speranze e crediamo, infine, che il conseguimento di questo obiettivo sia più importante del rigore dello storico e della freddezza del saggista.
Abbiamo giocato, è vero, ma lo abbiamo fatto a carte scoperte, dichiarando esplicitamente il metodo che abbiamo seguito. E lo abbiamo fatto sempre con il massimo rispetto possibile delle persone di cui parliamo: quelle che ci affascinano e quelle che ci lasciano dubbiosi.

WM2: Lou Palanca è un collettivo di cinque cervelli, dislocati in varie città calabresi e a Roma, ognuno con il suo lavoro e la scrittura come passione. Perché vi siete messi a scrivere insieme? Non è una complicazione in più? Cosa pensate di averci guadagnato?

LP: Cinque più tre, in realtà. Accanto a chi ha scritto c’è infatti chi ha letto, discusso e disegnato con noi. Siamo i resti di un laboratorio sociale che si era formato qualche anno fa tra Catanzaro e altre città del mondo e avevamo già lavorato insieme, sebbene per progetti e tempi più modesti. Viviamo in un terra, la Calabria, segnata da un individualismo sfrenato e dalla assoluta incapacità di lavorare collettivamente, anche per questo Blocco 52 ci sembra un piccolo gioiello di cui andare fieri. E a dirla tutta, ci siamo anche divertiti molto. Ci siamo scambiati mille mail, ci siamo incontrati in improbabili paesini di montagna, ci siamo corretti e cancellati reciprocamente, ci siamo mescolati come mai avremmo pensato di fare, e se non sapremo mai quanto ci abbiamo guadagnato, siamo comunque certi di non aver perso proprio niente.

WM2: Come vi siete organizzati, nella pratica? Pensate di continuare su questa strada o si tratta di un esperimento isolato?

LP: L’organizzazione è stata abbastanza semplice: incontri ciclici, ripartizione dei compiti, diritto di ciascuno di modificare o integrare i personaggi affidati ai singoli componenti del gruppo, unanimità delle decisioni, rilettura individuale e poi collettiva.
Per l’appunto ciascuno ha il proprio lavoro, i propri impegni, le proprie cose ed è difficile progettare il futuro in un campo che non è, o non era, il nostro. Non sappiamo se si ricostituirà l’alchimia magica, diremmo il sacro furore, che ci ha guidato in questa prima esperienza. Certo, le storie da raccontare non mancano …

WM2: Di tutte le regioni italiane, la Calabria mi sembra quella che suscita il maggior senso di appartenenza. Gente originaria di Cosenza o Catanzaro, Crotone o Reggio usa l’espressione “noi calabresi”, con una frequenza sconosciuta ad altri territori. Se la mia impressione è fondata, immagino che scrivere di Calabria e dalla Calabria acquisti per voi un significato particolare. Pensate che il luogo di cui e da cui scrivete incida sul vostro modo di intendere la narrazione e vi conferisca un ruolo particolare, che magari non avreste a Torino o Milano, o all’interno di una comunità differente, più lasca e meno identitaria?

LP: Come dicevamo prima, siamo convinti che la Calabria soffra di tanti mali strutturali, ma anche di una narrazione stereotipata ed estremizzata. La Calabria interessa e viene raccontata solo in quanto terra di ‘ndranghetisti spietati e barbari e di eroi che sacrificano la propria vita per contrastare la criminalità organizzata. In mezzo a questi due opposti c’è la Calabria che attraversiamo quotidianamente. Terra complessa, impastata anche di questi estremi ma fatta da mille altre cose. E sono queste altre mille cose, ciò di cui vorremmo parlare. Il nostro protagonista non è un eroe, è un uomo che sta dal lato giusto della vita, di cui rispettiamo l’impegno per gli umili e la dedizione per la giustizia sociale, ma di cui tratteggiamo le debolezze, le oscillazioni, le contraddizioni. Così come tutti gli altri personaggi di Blocco 52, uomini e donne del loro tempo, portatori di speranze e di sconfitte non solo calabresi.
Per noi, dunque, scrivere di Calabria ha un significato particolare, mentre scrivere dalla Calabria o da un altro luogo è abbastanza indifferente. Intendiamo l’identità come un grumo solo apparentemente statico e rigido, ma in realtà mutevole e frutto di un compromesso continuo tra ciò si era e ciò che sarà. Da qui o da un altro qualsiasi luogo, vorremmo riuscire a introdurre elementi di discontinuità nell’identità calabrese che si è andata consolidando negli ultimi decenni. E, soprattutto, vorremmo raccontare nel miglior modo possibile le storie di questo lembo di terra che meritano di essere conosciute.

WM2: Pochi giorni fa, qui su Giap, abbiamo intervistato (alcuni de)gli autori collettivi di In Territorio Nemico. Anche in quel caso, il gruppo di lavoro si forma e racconta intorno a una vicenda storica, quella della Resistenza. Secondo voi c’è un rapporto tra “raccontare insieme” e “raccontare storie dentro la Storia”, tra scrittura collettiva e romanzo storico?

LP: Sicuramente è molto più difficile per un collettivo di scrittura provare a produrre un romanzo psicologico, una narrazione basata sull’individuo, piuttosto che una vicenda corale, una “epopea”. Gli echi, i rimandi, i rimbalzi che lo scrivere assieme consentono trovano sicuramente il loro terreno più fertile nel romanzo storico. Raccontare storie in maniera comunitaria, spinge a rintracciare metastorie, a incrociare le narrazioni dei “piccoli” con quelle dei “grandi” cercando di farle dialogare ed interagire fra di loro.

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