Donatella Barazzetti, Aurelio Garofalo, André Gunder Frank, Giordano Sivini, Annamaria Vitale, Annamaria Vitale

Point break

L'impero, la guerra in Iraq e oltre

Cartaceo
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Le vicende che hanno portato all’attacco all’Iraq hanno messo in evidenza il disperato bisogno di guerra dell’amministrazione Bush jr. Sono stati pubblicati molti libri, ognuno con un pezzo di storia. I media, prima e

Le vicende che hanno portato all’attacco all’Iraq hanno messo in evidenza il disperato bisogno di guerra dell’amministrazione Bush jr. Sono stati pubblicati molti libri, ognuno con un pezzo di storia. I media, prima e dopo, non hanno fornito informazioni che consentissero di capire ciò che stava succedendo.
Ha fatto eccezione Giovanni Minoli per Rai Educational, in particolare con due ricostruzioni storiche efficaci. La prima è quella di John O’Neill, deputy director dell’Fbi dimessosi per protestare contro gli ostacoli che gli frapponeva l’amministrazione Bush ad andare a fondo nelle indagini su Al Qaeda, deceduto nel crollo delle due torri dove era finito come chief security del World Trade Center (cfr. www.rememberjohn.com). La seconda ricostruzione è quella della contrapposizione, dagli anni ’90, in seno al governo americano, tra “buoni” e “cattivi”, avendo questi ultimi perseguito – e con Bush jr. finalmente raggiunto – l’obiettivo di impegnare la potenza militare a fare la guerra all’Iraq, nel quadro di una azione egemonica di portata mondiale.
Però, “buoni” e “cattivi” perché? Quali le ragioni del disperato bisogno di guerra dei cattivi?
È questa la domanda che ci siamo posti, e a cui abbiamo cercato di rispondere, raccogliendo e passando al vaglio – in un breve lasso di tempo – una grande mole di materiali, che le ricerche su internet avrebbero reso praticamente inesauribile. Ne abbiamo fatto una cernita e li abbiamo analizzati, senza una tesi precostituita. In questo volume presentiamo le prime conclusioni.
Annamaria Vitale esamina il processo di formazione della dottrina Bush; Giordano Sivini la sua realizzazione pratica; Andre Gunder Frank descrive la debolezza economico- finanziaria degli Stati Uniti e avanza la tesi che la guerra sia fatta per difendere il dollaro di fronte all’euro e per contrastare lo slittamento verso l’Asia del centro economico del mondo (il che riflette la problematica, su cui sta lavorando, relativa al suo Re-Orient); Aurelio Garofalo tratta delle conseguenze della dottrina Bush sull’ambiente; Donatella Barazzetti ci dà invece un quadro di quel che era il complesso militare industriale fino all’inizio degli anni ’90.
Analizzando la documentazione sul presente ci siamo imbattuti in tesi diverse, che intendono spiegare le ragioni di quello che abbiamo definito un disperato bisogno di guerra della Casa Bianca e del Pentagono, perché a tale conclusione portano i modi con cui hanno perseguito questo obiettivo, giustificandolo contro ogni evidenza.
Abbiamo tenuto conto delle tesi ragionevoli, non di quelle pretestuose, mettendole a confronto con i documenti e con i fatti. In questa premessa non riassumiamo le conclusioni a cui siamo giunti. I lavori che presentiamo sono sufficientemente agili e brevi e, speriamo, chiari. Il titolo dato al volume dà il senso complessivo di queste conclusioni.
Point Break allude al magnifico film di Kathryn Bigelow (Usa 1991), particolarmente caro ai cinéphiles, ma noto anche al grande pubblico per le scene in cui i protagonisti – un gruppo di rapinatori zen – utilizzavano le maschere di ex presidenti americani per compiere spettacolari colpi in banca. Nel nostro caso il puntò di rottura riguarda gli Stati Uniti e l’equilibrio mondiale. Con Bush jr. siamo di fronte al disegno, già in opera, di stabilire la leadership sul mondo, con atti di forza – militari e non – nei confronti non solo di quelli che vengono identificati come “Stati canaglia”, ma anche di Europa, Russia e Cina. Anche se il disegno in atto fallisce – e ci sono ragioni per sperare – è andato in frantumi il paradigma che reggeva il sistema di potere basato sul primato degli Stati Uniti.
Se è evidente che siamo a questo punto di rottura, incontriamo tuttavia difficoltà a rispondere all’interrogativo sulle ragioni del disperato bisogno di guerra degli Stati Uniti.
Da un lato non ci sembra sufficiente sostenere, in maniera quasi tautologica, che la rottura è riconducibile ad una volontà di potenza, anche se la documentazione è piena di manifestazioni di questa volontà. Riteniamo semplicemente che ogni spiegazione basata sull’autonomia della politica non è riproponibile.
D’altro lato altre tesi presa una ad una, sembrano deboli. Gunder Frank sostiene in questo volume che gli Stati Uniti stanno reagendo al pericolo del crollo catastrofico del dollaro, accelerato dalla praticabilità del passaggio all’euro nelle transazioni internazionali e nelle riserve delle banche centrali. È stato proprio l’Iraq ad avviare questo processo, e gli altri paesi dell”‘asse del male” si sono messi su questa strada. Quella degli Stati Uniti come tigre di carta evoca ricordi lontani nel tempo, ma Gunder Frank, da economista, fa una analisi attuale, e ci spiega le ragioni della fragilità del dollaro e della necessità di sostenerlo con la forza militare, per realizzare, nell’immediato, il controllo del mercato internazionale delle risorse energetiche.
Quella del dollaro sostenuto dalla forza militare contro l’euro è una tesi che circola sulla rete in maniera sommessa, e che stranamente non è emersa come oggetto di dibattito, lasciando che le posizioni europee che hanno contribuito all’isolamento degli Stati Uniti siano definite in termini di grandeur per Chirac, o di cautela per Schroeder.
Gli economisti hanno purtroppo lasciato vuoto lo spazio delle analisi che riguardano le ragioni e le conseguenze della guerra. Jim O’Neil, capo economista del gruppo Goldman Sachs e responsabile per i problemi globali, pur senza riferimenti al passaggio dal dollaro all’euro, ha però di recente evidenziato il potenziale stato comatoso del dollaro (cfr. Il Sole-24 Ore del 4 aprile 2003): “Sarà la bilancia dei pagamenti Usa a tenere il dollaro sotto pressione: questa debolezza durerà a lungo. E il mondo dovrà imparare a gestire questo nuovo scenario, anche perché molti Stati sono cresciuti sulle spalle del dollaro forte. Ma la debolezza del dollaro è una sfida per tutti: prevedo che il cambio della valuta Usa contro l’euro arriverà a 1,18 sul breve termine, entro un anno; nel lungo periodo, il deficit della bilancia commerciale Usa potrebbe peggiorare il cambio portando il dollaro a quota 1,30-1,40 contro l’euro. Per questo le istituzioni globali che governano l’economia mondiale dovranno essere riformate”. Altri analisti finanziari confermano la gravità della situazione in cui versa il dollaro, a causa dei deficit gemelli delle partite correnti e dei conti pubblici. La prospettiva del ridimensionamento – se non del crollo – del dollaro è dunque reale nel mondo della finanza internazionale. La ricerca delle ragioni del disperato bisogno di guerra ci porta, però, a dubitare che ci sia solo questa spiegazione, mentre invece siamo sufficientemente sicuri che è riduttivo dire che il governo degli Stati Uniti difende gli interessi delle imprese petrolifere che hanno finanziato la campagna elettorale di Bush, o che abbiamo a che fare con una guerra per l’approvvigionamento del petrolio.
E allora? La difficoltà nel dare la risposta deriva dalla inadeguatezza del nostro comune pensare rispetto alle espressioni della razionalità nuova e coerente che sorregge la proposta assolutista e prevaricatrice della Casa Bianca e del Pentagono. Quella che ha portato alla guerra, e che preannuncia chiaramente altre guerre. Quella che si fa gioco di ogni rispetto; che mette il mondo nelle mani di decisioni discrezionali che non consentono repliche; quella che è difficile analizzare senza provare rabbia.
Il terreno della sicurezza nazionale su cui si muove il governo degli Stati Uniti è spiazzante perché – proponendo un nuovo paradigma – ridefinisce problemi concetti e termini. Se tuttavia proviamo a scavare nel modo consueto – e dovremo ancora farlo più a fondo – ci sembra di poter concludere che il disperato bisogno di guerra è alimentato non solo dall’ossessione, visibile, di eliminare ogni possibile contendente, ma dalla convinzione che questo è il solo mezzo per fare del mondo intero uno spazio di libero mercato, e che il tempo per realizzare questo obiettivo non può essere ancora rinviato. In questo spazio di libero mercato le imprese americane hanno una posizione di forza, ma può esserci anche posto – probabilmente e secondo le circostanze – per quelle di paesi alleati e amici. L’economia, in questa prospettiva, ha definitivamente il sopravvento sulla politica, perché quest’ultima è concentrata, e militarmente sostenuta, nel governo della superpotenza. La politica degli Stati sarà definitivamente ridotta a gestione locale subalterna; in particolare i paesi produttori di petrolio verranno espropriati del peso che hanno nei rapporti internazionali con un processo di denazionalizzazione che comincerà con l’Iraq.
Se questa è la risposta che cercavamo, ciascuna delle tesi avanzate da altri – gli interessi delle compagnie petrolifere, l’approvigionamento del petrolio, il controllo sulle fonti energetiche, il keynesismo militare, dollaro versus euro, la politica di potenza – contengono un pezzo, ma solo un pezzo, di verità.
Le difficoltà che incontriamo nell’ammettere questa inedita realtà ci aprono però a prospettive rassicuranti non per il recupero della politica degli Stati ma per le pratiche nuove riferite a significati di pace e democrazia diversi dal passato, che sono in costruzione, e che si alimentano delle mobilitazioni a cui abbiamo assistito e partecipato, e delle dure resistenze di quanti sono vittime delle aggressioni del governo degli Stati Uniti.